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Franco Cavallo ● Napoli la Zoccola

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Franco Cavallo

Ballata per Napoli la zoccola*


A Napoli la Zoccola
Oh Napoli la Zoccola
Ahi Napoli la Zoccola
perché sei così zoccola?

Zoccolando zoccolando
si sale in cima alla vetta
dell'Incubo-Corvetta
per poi precipitare nell'abisso.

Che cos'è un Crocifisso?
Non è certo un suffisso!
È la Santa Alleanza
tra la sentina e la panza.

A Napoli la Zoccola
Oh Napoli la Zoccola
Ahi Napoli la Zoccola
perché sei così zoccola?


Per un architrave crollato
alcune migliaia di milioni
hanno spiccato il volo
dalla pista del Santo Patrono.

A Napoli la Zoccola
Oh Napoli la Zoccola
Ahi Napoli la Zoccola
perché sei così zoccola?

Zoccole che vengono, zoccole che vanno
lungo la stagione dei malanni.
Zoccole di luce rossa,
zoccole antropomorfiche...

zoccole di Piazza della Borsa
zoccole di Palazzo San Giacomo:
zoccole che vanno di corsa
verso il Largo di Sant'Erasmo.

A Napoli la Zoccola
Oh Napoli la Zoccola
Ahi Napoli la Zoccola
perché sei così zoccola?

Flosofi in abito scuro
entrano nell'Istituto:
scansano con passo sicuro
la buca aperta e il rifiuto.

A Napoli la Zoccola
Oh Napoli la Zoccola
Ahi Napoli la Zoccola
perchè sei così zoccola?

Zoccole di Via dei Mille,
zoccole garibaldine:
zoccole delle cento Siviglie
acquartierate sulle colline.

A Napoli la zoccola
Oh Napoli la zoccola
Ahi Napoli la Zoccola
perché sei così zoccola?

Chiesa di Santa Chiara
fatta di pietra amara:
non è certo la Certosa di Parma,
è il reame della tarma.

A Napoli la Zoccola
Oh Napoli la Zoccola
Ahi Napoli la Zoccola
perché sei così zoccola?

Zoccola lo zoccolànte
tra zoccole salmodianti
sui cumuli di spazzatura
acri e maleodoranti...

Ed ecco il signor Céline.
È un ometto-cerino.
Il suo vitreo occhio sbarrato
si perde nel mare allumato.


* Testo ispirato dall'intervento di Felice Piemontese, A Napoli la Zoccola, apparso sul numero 70 di "Alfabeta" (marzo 1985).



da "Altri Termini"
quaderni internazionali di letteratura.
Numero 2 - Terza Serie
Giugno-Settembre 1985
SEN Napoli

La poesia di Balan
La vacca in leggerezza nella poesia di Franco Cavallo
(...) Va da sé che, per Franco Cavallo, parlammo di condizione di ascesi della passione, che era una sorta di sacrificio della deissi dell’immagine perché perseverava nella trascendenza del simbolo: un procedimento induttivo nello stile del poeta partenopeo tra parabola del feticcio e ellisse del fantasma. Il Confondere del suo schema verbale raddoppiava discese e penetrazioni, a volte storicizzava il fantasma, altre volte ne distribuiva la nominazione raddoppiando il predicato, tragitto infinito nella carne del mondo tra sineddoche e metafora.
9 sopra: iconicità alta
¾
6 al 5° posto: complessità alta
- -
9 al 4° posto: polisemia alta
¾
7 al 3° posto: pregnanza più che sufficiente
¾
6  al 2° posto: carica connotativa buona
- -
8 all’inizio: codice ristretto
- -
56.Lu; il viandante

Il fuoco divampa sul monte, è come se divampasse sul futuro, che è altrimenti il Sursum Yang al quale si associano l’idea di insolazione e quella di corrente aerea; il sintagma tra fuoco e pietra è come se splendesse sulla collina di Belen, che è l’Apollo celtico, tanto che si può dare allo stile di Franco Cavallo il nome di Ballan o Balan, come sono chiamati i luoghi elevati nella tradizione celtica; non è fuori luogo visto che la toponomastica francese rafforza questa tesi: tutti i monti Beillard, Billard, Bayard, tutti i Bellegarde di Francia; e visto come e quanto Franco Cavallo fosse dentro la poesia francese, non solo per aver tradotto Corbière, Péret e Blaise Cendrars.
Resta da vedere come tra la Complessità e l’Iconicità alta, tra il sei al quinto posto e nove sopra, sia possibile che una freccia – d’accordo, un significante- possa andare smarrita e che a quell’uccello che stava su bruci il nido: la poesia di Balan ha nel paradigma la perdita della vacca in leggerezza?
Anche in questo caso, un’indagine non leggera potrebbe farci appurare che in realtà del poema di Franco Cavallo  non resta nulla : “Egli non perde la vacca in leggerezza? Definitivamente non sente nulla”[i].
V.S. Gaudio
[i] Cfr. I King, a cura di Richard  Wilhelm, Astrolabio, Roma 1950: pag.506.


V.S. Gaudio 
L’ascesi della passione del Re di Coppe 
Celuc libriMilano 1979


Luciano Troisio ● Il fiore del frangipani

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Candidasa, 29 luglio 2013

IL FIORE DEL FRANGIPANI

Ieri ci siamo trasferiti da Padangbai, io e le due francesi madre e figlia, fino all’estrema parte est di Bali, esattamente ad Amed. Alle 9.30, come d’accordo, ho lasciato la mia camera fronte mare del Kerti, e mi sono diretto con trolley e borsa Pam al vicino Marcoinn. Padangbai è molto piccola. La ragazza mi aspettava nel cortile pieno di cespugli fioriti dove stava mangiando un omelette e mi ha offerto parte del suo caffè, abbiamo bevuto dalla stessa tazzona. La mamma si stava preparando al piano superiore. La ragazza mi ha fatto delle domande di tipo scientifico sul perché gli uomini, che nella preistoria erano tutti di pelle nera, sono diventati bianchi. Poi abbiamo parlato degli indoeuropei, non sotto l’aspetto etnico ma linguistico. Era di ottimo umore e questo ha rallegrato anche me che potrei essere suo padre. Arriva la madre, ultrasessantenne, elegante (di quelle che hanno fatto un solo figlio molto dopo i quaranta), con uno splendido abito giallo comprato in loco, pettinatura bionda appena rassettata, ridente nel suo abbondante sovrappeso da vedova americana che ha appena incassato l’assicurazione. Ordina il break fast. La ragazza è salita a sua volta a lavarsi. Intanto erano passate le dieci. Abbiamo parlato di molte cose. La signora tende a parlare, nel suo inglese solo un tantino migliore del mio, con tutti gli indigeni che incontra, è curiosa di tutto. Immagino che sia convinta di essere molto democratica; intanto il tempo passa. Ha voluto assolutamente che mangiassi un pankake, è una tipa di un insistente noioso insopportabile. A tal fine ha chiamato la padrona balinese, mi ha fatto portare anche un’altra tazzona di mediocre Balicopi. Abbiamo parlato a lungo con la padrona, tutta sorrisi e gentilezze. Si son fatte le undici, siamo saliti in camera; la ragazza aveva finito di farsi la ceretta alle gambe. È piuttosto bella, e la madre: come sei bella. In effetti piace molto anche a me, ha un bel personale, capelli biondi lunghi, un bel volto espressivo, non assomiglia per nulla alla madre, seno abbondante già con un cicinin di smagliature, che si notano anche nella parte interna delle cosce. La madre vorrebbe che la ragazza si guadagnasse un po’ di argentdepoche perciò vorrebbe creare un book di foto da presentare a studi pubblicitari. Nei giorni precedenti la signora mi ha usato come suo fotografo oltre che come schiavo, boy, chaperon, guida e coolie. L’ho immortalata in centinaia di pose fino allo sfinimento (mio). Il 95% delle immagini è venuta orenda, cioè naturale. Il resto decente. La signora è stata mia vicina di camera a Ubud. Abbiamo fatto amicizia e ogni mattina consumato insieme il BF al piano, che lei ha abbondantemente integrato con yogurt, marmellate, biscotti e vari tipi di tè (io non lo so apprezzare, ma il caffè è così atroce…). D’accordo: lo faceva per la figlia. Quante preoccupazioni questi figli! E in più le mestruazioni in ritardo. Dice che a volte le salta addirittura (ne ho antica esperienza…). E infatti la fanciulla è molto nervosa e instabile, discutendo con la madre, che la provoca in media ogni dieci minuti, ha degli scatti reattivi molto bruschi; a volte addirittura se ne va. Esorto alla pazienza. Cerco di mediare.
Hanno una Nikon molto costosa, regalo dei colleghi in occasione del pensionamento, io ho un’altra Nikon più modesta, comprata a Sri Lanka (avendo scassato la mia Olimpya made in Vietnam) con soli 8 pixel. Sono fotografo da sempre, da poco approdato al digitale dalle più classiche slides. La ragazza si è presentata appena uscita dalla toilette mattutina come un’apparizione. Ho cominciato a scattare sul terrazzino, rami verdi saliti dal giardinetto sottostante e fiori esotici dappertutto. La ragazza, pur non essendo perfetta, ha un corpo notevole, ho fatto scatti a centinaia, aveva una maglietta scollata chiara e sotto appariva il reggiseno nero. Siccome dai pantaloncini inguinali sporgevano delle tasche nere, mi pareva logico sottolineare questi particolari e le ho gentilmente spostato spalline e reggiseno. Al che la madre ignorante sempre tra le palle a dare consigli di regia fuori luogo mi ha detto: non toccare le tette a mia figlia. Quando lavoro lo faccio molto seriamente, non penso ad altro e cerco di costruire la migliore sinergia col soggetto. Figuriamoci se tollero la benché minima libertà. Se la battuta avesse avuto un intento scherzoso, avrei immediatamente accettato il codice, ma non lo era affatto. Inoltre solo un profano sprovveduto può disturbare durante un servizio fotografico d’autore. (Giorni prima le avevo accompagnate al magnifico tempio/sorgente di Tampaxiring. Per entrare in un luogo sacro bisogna indossare un certo costume che ora viene fornito gratis. Ebbene: appena indossato con l’aiuto di apposito vecchietto, la dama ci aveva rivelato che il summentovato le aveva bragagnato quattro volte le tette, del tipo informe/voluminoso, che come studioso personalmente trovavo di attrattiva nulla. Già avevo delle riserve su quelle della figlia minorenne…). Sapendo con chi avevo a che fare ho evitato per miracoloso sforzo diplomatico di darle un paio di schiaffoni sincronici e le ho solo detto di non permettersi mai più di rivolgersi a me con quel tono. Nei giorni precedenti si era dimostrata in modo inaspettato volgare e molto maleducata, soprattutto in presenza di altre persone, ad es. obbligandomi a dare a estranei il mio biglietto da visita (quasi fossi suo marito….). La figlia non la sopporta, ma essendo minorenne -pur dimostrando un fisico da venticinquenne- deve abbozzare perché ancora studentessa, senza padre e del tutto dipendente.
Abbiamo cambiato varie volte locations, valorizzato le lunghe gambe, il volto di grande intensità, assecondato la spontaneità della fanciulla. In passato ho lavorato con famosi fotografi (che non nomino), secondo me sopravvalutati, soprattutto volgari tecnici senza cultura e non artisti; locations prestigiose: Arquà, Asolo, Venezia, avevamo dietro uno stuolo di assistenti. Ricordo un nero abbastanza famoso, interveniva solo sui capelli delle modelle. Cosa che a suo tempo ho imparato bene da lui. Il gesto deve essere unico, la chioma sconvolta senza più toccarla. Ho usato in sequenza le due macchine. La ragazza negli intervalli verificava subito gli scatti nella macchina in riposo, ne cancellava arbitrariamente molti, cosa che come autore mi fa sempre arrabbiare, pur sapendo che non bisogna in nessun caso irritare la modella (ma nemmeno l’artista). Su circa quattrocento ne sono uscite una mezza dozzina di superbe. Intanto si era fatto mezzogiorno. La dame ha poi voluto che la fotografassi colla padrona davanti alle statue del tempietto, sapere il significato dei loro gesti (molto simili a quello dell’ombrello) e così e cosà, finalmente ha fatto chiamare per il tassì, è arrivato il sovrintendente al prezzo. Durante le trattative la gentilissima padrona balinese ha moderato la discussione, impedendo che il prezzo venisse ribassato, cosa che ha sconvolto madame. Le balinesi (non tutte ma in generale) sono di un’avidità strozzinesca. Alla mezza: combinato per 280.000 rupie. Arriva il driver, carichiamo, si parte. La ragazza sale davanti, io dietro a spupazzarmi la signora.
Padangbai è famosa per l’attracco dei ferry che vanno alle piccole isole della Sonda (Lombok, Sumba, Sumbava, Flores che è interamente cattolica, Timor ovest indonesiana, Timor Est, stato indipendente interamente cattolico). Il molo principale è attualmente fuori uso e ciò provoca enormi code di camion che devono aspettare molte ore e intasano le strade d’accesso con grossi problemi per il traffico fino all’unica strada costiera, quella che dovremo percorrere anche noi. Finalmente arriviamo al cross/rotatoria, giriamo verso est, dopo qualche chilometro si arriva a Candidasa, su cui ho scritto molte volte. C’è un grande lago interamente coperto da fiori di loto. Proseguendo verso est si abbandona la regione di Bali centrale (quella dove le tradizioni antiche sono più genuine: cerimonie, danze, pantomime, artigianato, oreficeria, scultura in legno, in pietra) e si entra nella parte che per vari aspetti è diversa. Perfino il sostrato della popolazione ha caratteristiche anteriori all’invasione giavanese. Sono i cosiddetti Bali Aga, con tradizioni completamente diverse, antichissime, addirittura connesse al periodo megalitico e spesso animiste. Inoltre in questa zona, chiamata Karangasem o Amlapura, vive una minoranza musulmana del 10%. Sul paesaggio incombe il cono del grande vulcano Agung, che nel secolo scorso distrusse con terribili eruzioni tutta la zona alterando il corso dei fiumi, distruggendo migliaia di templi e case. A suo tempo, durante un precedente viaggio, visitai questa zona. Era brulla, con erba gialliccia, qualche piccola palma si sforzava di crescere sulle lingue di lava grandi come colline, alcune precipitate fin dentro il mare. Per decenni molti tratti non erano percorribili nemmeno in motocicletta.  La prima guida di Giava/Bali che ho acquistato negli anni Settanta, aveva delle cartine che illustravano la zona disastrata e segnalavano sentieri tratteggiati, gli unici percorribili. Ma oggi abbiamo potuto constatare che la vegetazione si è completamente ristabilita nel suo tripudio verdeggiante, le risaie sono state risistemate, l’equilibrio idrico è perfetto, per quanto l’acqua non abbondi, tanto che in certi paesi bisogna ancora portare quella potabile con autocisterne. La strada è tutta curve, saliscendi. La signora ha fatto fermare varie volte, mi ha pregato di immortalarla. Le foto son venute di una bruttezza stridente col paesaggio edenico; a un certo punto, su un piccolo valico, ecco molte scimmie che non rispettano le offerte sugli altari e se le mangiano. Passiamo Tirtagangga, palazzo d’acqua per me importante, ma non dico nulla. Il driver ferma subito dopo, per gli scatti d’obbligo alle risaie della vallata. Stupende, ridenti. La ragazza passa dietro, soffre il mal d’auto, si stende alla mia sinistra, posa il capo sul mio femore, poi cambia, mi dice di non guardarla mentre dorme. Arriviamo al famoso bivio di Culik, già posto di grassatori e truffatori. Ma ora non c’è quasi anima viva né mercato. La dame scende e va a comperare varie chincaglierie. Ci mette molto, io nemmeno scendo, la ragazza sta male e credo che la fermata sia per darle sollievo. Le do una fisherman alla menta, il pilota scende raggiunge la signora per far da mediatore negli acquisti. Sono di una curiosità incredibile, subito vuole inserirsi. Mi pare che lei lo stia mandando al diavolo. Alla fine ripartiamo; ha comprato una mensola da offerte in nero e oro, un ventaglio azzurro, una bibita che la ragazza rifiuta. Prezzi bassissimi. La meta è Amed, che conosco da molto. Spiaggia a ciottoli di lava, bungalow in pendenza. Sulla sinistra preparativi di cremazione, piccola torre, toro nero (significa che il defunto è della casta dei bramini), ci sono persone che indossano il costume tradizionale, sorridono e le loro dentiere bianche mi ricordano maschere e dipinti tradizionali. La ragazza è piuttosto strana, non solo non ha detto nemmeno un grazie per le foto, ma mugugna che lì non troverà nessun giovane con cui fumare. Intanto la madre, che ha letto attentamente la sua guida francese, torna dall’ispezione, dice che i bungalow sono bellissimi, il posto le garba assai, parla in francese coll’incaricato, ci costringe a seguirla per vedere la spiaggetta e l’annesso bungalow. Che costa di più, nonostante sia abbastanza spartano e in quel punto non c’è wi fi (quindi lo darebbero a me) e verrebbero a godere della (mia) spiaggetta privata. Sarebbe bello, avrei la ragazza come ospite in bikini. Mi piace da morire. Dovunque appare attira gli sguardi, gli uomini le sorridono.

[Sono costretto ad aprire una parentesi: sto male, sto molto male. Cerco di non farlo trapelare. Mi scappa da piangere, credo di avere gli occhi lucidi. Da alcuni giorni non prendo il mio antidepressivo, avendo smarrito il flacone, è la prima volta che mi succede dopo anni e l’angoscia mi sta attanagliando. Abbiamo cercato il farmaco anche nella capitale Denpasar, gli amici italiani hanno scomodato perfino degli accademici. Nulla. L’argomento è molto interessante e adatto a descrivere i rischi che si corrono a sud di Singapore, dove c’è il vuoto assoluto fino all’Australia e si può crepare in pace.]

La signora cerca di invogliarmi a restare lì con loro. In realtà è una bieca sfruttatrice che vuole realizzare a scrocco il book per la figlia divina: questo mi addolora e irrita. Cerco di esprimermi con educazione, osservo che non mi sembra opportuno imporre la mia presenza, specie alla giovane; la madre mi interrompe e chiede a gran voce alla figlia se vuole che io stia lì. Risponde che per lei è lo stesso. Le mie foto le piacciono, ma si guarda bene dal chiedere favori. D’altronde agli dei tutto è dovuto. Non mi sembra il massimo del gradimento, quindi per dignità decido di andarmene, di tornare a Candidasa. Del resto avevo fin dal giorno prima dichiarato che quella sarebbe stata la mia destinazione. La differenza tra me e loro è che io conosco a menadito tutti posti, mentre loro sono alla prima esperienza e non sanno dove vanno. La signora insiste, che il giorno dopo si libera il bungalow accanto al loro, che costa di meno, che è tutto bellissimo. Faccio notare che tornare indietro da Amed specie nel pomeriggio non è affatto semplice e che mi conviene approfittare del nostro stesso tassì che torna a Padangbai. E lei: ma fermati almeno a mangiare! (sono le due e mezza). Mentre piango masochisticamente all’interno, mi rendo conto che tutto sommato la signora è molto carina nel suo insistere, che forse non è solo squallida e magari è anche sincera e almeno lei ha piacere, oltre che interesse, che resti. E poi la locations spiaggiavulcanica sarebbe ottima, e piacerebbe anche a me che provo una sensazione intensa mitragliando quel bel volto, quel corpo adolescente prepotente, mi pare di possederlo, lei non può non sorridermi non ammiccarmi, il mio sarebbe un vero oblativo atto amoroso che certamente interferirebbe positivamente sul risultato, e forse nemmeno lei sa davvero che cosa sta facendo provando pensando. Ma il pianto interno la destrudo ha il sopravvento e mi dirigo al tassì, la signora lo paga, rifiuta il mio contributo, anzi se ne esce con: diamogli altre 50.000, così ti aspetta mentre mangi. Salgo, sono assalito da un forte capogiro, voglio fuggire perché temo di scoppiare a piangere, tutto muta.
 Mi fa un cenno con la mano sorridendo, da lontano, non si avvicinano di un centimetro, stanno sul bordo della strada, quello è un addio definitivo, dopo un mese di onorata servitù, non ci vedremo più). Fingevo di non sapere che avevano già progettato di andare alle isole Gili a visitare il più grande allevamento di zanzare di Lombok, direttamente da Amed. Volevano davvero portarmi con loro alle Gili? La ragazza è assente, non fanno un cenno, non hanno una parola per tutto quello che ho fatto scoprire loro. Ma sono io che abbasso il finestrino, ringrazio la dea, le auguro ogni felicità e buona fortuna per la vita. Il viso ora non modifica un solo muscolo. Partiamo.
Tutto all’indietro, Culik, risaie, Tirtagangga, Amlapura, Bug Bug, finalmente il laghetto costiero di Candidasa e il Kelapa Mas. Il tassista scarica, ringrazio e saluto, se ne va senza rispondere.
Silenzio, non c’è nessuno, poi esce un giovane che mi riconosce, mi saluta in italiano, discutiamo un po’ il prezzo in dollari, mi pare 45, infine accetto il prezzo di 250.000 rupie. Mi accompagnano al mio fido bungalow B1, i clienti sono pochissimi, una cameriera bruttina elegante mi porta una bevanda di benvenuto. Conosco alcuni clienti del Kelapa da molti anni, oggi non c’è né Mafalda né la suora svizzera buddista che è rientrata a Zurigo, ma tornerà presto.
Ho descritto varie volte il giardino del Kelapa Mas, che nonostante abbia vinto molte volte il titolo di più bel giardino di Bali, non è nemmeno citato nella superguida francese. Anche stavolta, fuggito dalle grinfie, ho chiesto asilo al giardino solitario. Qui mi sento meglio; sono diminuiti perfino i suoni molesti come seghe diesel, smartellamenti, perfino i galli sembrano più umani. È forse il luogo adatto per superare la scrisi di astinenza dal farmaco.
Inoltre a Candidasa ci sono molti ristoranti dove si mangia bene, le cameriere sono gentili e molto eleganti; il servizio è curato nei particolari. Ieri sera al conto mi hanno portato un bicchierino di arak e messo un bellissimo profumato fiore di frangipani all’orecchio.

Ma dopo venti metri di strada l’ho gettato via.


Nadia Campana & V.S.Gaudio ● Le scarpe di Nadiella

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Le scarpe di Nadiella 

Dialogo tra Nadia Campana e V.S.Gaudio



VS Cos’è che senti con questi scarponcini?
NC Più candore.
VS I piedi come sostegno di tutto l’edificio umano e di tutti i piani della coscienza; i piedi, così, con questi scarponcini, rimangono tuttavia ancor di più in contatto col terreno?
NC Mi sento più egoista, anche. E tirannica. E mi va di andare al mare…
VS L’inverno sulla spiaggia di Rimini, come in quella foto che era nella Felicitas di Testori, che mi hanno fregato nella mansarda a Torino(1).
NC Anche in primavera. D’altronde fu  in primavera che tu, con questi scarponcini, mi hai conosciuta.
VS Per via del sentimento e della grazia, e hanno il dono di affascinare e di intenerire.
NC E la mente è lenta e coscienziosa, è il carattere  femminile, no?
VS Vallo a dire a Jung. Ma, piuttosto, con queste scarpe si può vivere da soli?
NC No. E poi ti tirano ai piaceri sensuali, all’amore, se vuoi saperlo, Son voluttuosi.
VS Non starebbe a me dirlo, ma ricordano il tuo segno, amano accarezzare e sanno farlo. L’apparenza esteriore è amabile, ma nasconde per lo più una mente sottile. O un certo arrivismo, e senza averne l’aria.
NC Sono le scarpe dei gesti lenti e aggraziati.
VS E dei seni pieni e rotondi, e degli occhi grandi, umidi e amorosi. E dei fianchi che son parole dolci anche per gli stranieri, della pelle fine  in un corpo alto, agile, amoroso e sentimentale.
NC Certo. Questo avrebbe detto Max Jacob, che, forse, vai a vedere, era Moricand, quello che stette una lunga stagione a casa di Henry Miller(2).
VS Ma cos’hanno i tuoi scarponcini, compreso il gaudio, che io non ho?
NC I lacci, forse. Le stringhe, per come detestano il rumore, la discordia, e per come siano emotive e abbiano una improvvisa violenza.
VS Le stringhe sono più appassionate. I lacci, implacabili.
NC La tomaia è tra logica e resistenza. E il senso della realtà, di ciò che è tangibile. Niente filosofia, fantasticheria, contemplazione.
VS La tomaia è come il tuo Ascendente, è frivolo e lussurioso.
NC Ma va…
VS Nel libro sacro dei Maya-Quiché, Huracan, lo spirito dell’abisso, il dio della tempesta, ha la natura vulcanica e fatale, insaziabile in ogni cosa. Ha il potere magico di affascinare.
NC La tomaia è la pelle.
VS La pelle è quella del tuo corpo. Una cantante, un contralto, disse:” Io canto per conoscere me stessa. Più la voce mi sale dal ventre e mi dilania le reni, e più mi sembra di liberarmi da un segreto che è dentro di me”.
NC Tra la tomaia e la pelle, un ventre di capra o di vacca?
VS Quella donna era nata alla fine di ottobre e aveva l’arte di liberarsi della sua inquietudine.
NC E con che scarpe cantava?
VS La tomaia mi fa venire in mente Didone e la pelle della vacca, che, tagliata come fece lei, le permise di ottenere il territorio su cui fu edificata Cartagine.
NC Era Scorpione pure lei come il contralto?
VS La sorella Anna Perenna, forse.
NC Perché?
VS Per via della sodomia.
NC E la pelle di Didone?
VS Non lo so…Le tue scarpe, la pelle di Didone, la pelle della vacca, vedrai…un giorno ti ci farò un poemetto, Nadia…
NC Le scarpe di Nadiella…va là, V.S….
                                                                    
                                                                                      [ Bologna © 1979 ™ trascrizione di v.s.gaudio ]

(1) E’ sintomatico come mi fu trafugata quella foto in cui Nadiella era, d’inverno,  sulla spiaggia di Rimini, come se fosse nel vento – che è invisibile e che a volte per questo si trasforma in una trappola mortale, come la trappola per Wertheimer che scattò il giorno in cui si iscrisse al corso di Horowitz, anche perché lei nell’immobilità di quei giorni alcionici aveva l’allure al lasco della Julie trentenne di Balzac, nonostante lei fosse ventenne e avesse un quid morfosintematico tra Xénie, Dirty e Lazare de “Le Bleu du Ciel” di Georges Bataille; ed è ancor più sintomatico che la foto fosse nella “Felicitas” di Testori, che lei mi aveva dato da leggere. Oggi, nel web, gira una sua foto-tessera che non corrisponde per niente al paradigma di quella Nadiella sulla spiaggia di Rimini e di quella che fu la mia Nadia.
(2) Vedi quanto ne riferisce V.S.Gaudio in Miroir d’Hétérotopie lunarionuovo.it
L’esotopia di Henry Miller 

Le scarpe di Nadiella 
V.S.Gaudio, La Stimmung con Marguerite Duras, Emily L.
 in "Lunarionuovo" nuova serie n.9, aprile 2005


Black_Shivers
Queste non sono le scarpe di Nadiella; ma avrei voluto vederla anche
con queste, adesso!
&
Leggi anche
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Francesco Merlo  Vuesse Gaudio  Roberto Pellegrini  Violetta ● La malizia del riccio e il baccalà

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Il pesce in Sicilia / LA MALIZIA DEL RICCIO

Il pescivendolo, coi piedi nudi e i muscoli nocchiuti, vendeva, nell’attesa, i branchi della seppia, da mangiare crudi uno dopo l’altro, come patate fritte, e alla fine regalava una manciata di cicireddu, minutaglia accettata senza gratitudine perché «u cicireddu pisci è?».Di crudo mangiavamo i gamberetti di nassa e i masculini — le alici — , piccoli, argentei, dissanguati. Non ci sono tartare né carpacci nella tradizione siciliana, ma pesci poveri da maltrattare in cucina come la cavagnola che da grande diventa ricciola, il capone e il pauro che è il dentice rosa («potenza della provvidenza…»), il sarago pizzuto, il tonno che costava poco e finiva stracotto nella cipuddata. Ma fosse pure cefalo, dentice o orata, il pesce era sempre arrusti e mangia, metafora dell’uomo che consuma tutto e subito quel che guadagna senza investimenti né salse, senza giochi di borsa né maionese, solo un ciuffo di ‘mauru, la verdura di mare che l’inquinamento ha fatto sparire. E si gustavano crudi il riccio e la cozza, slinguata platealmente perché il mare è un abisso di allusioni. Dunque il polipo, u puppu, è l’omosessuale. E nelle pescherie è tutto un annusare, al confine tra profumo e fetore, con lo stesso naso di Casanova che riconosceva all’olfatto le donne della sua vita: «Più forte era la traspirazione di quella che amavo più a me sembrava soave». Ed è così anche per la sarda e il baccalà, per il capone e per la zoccola, che è un magnifico crostaceo scuro, piccolo e brutto. «Nel fondo del mar / nel fondo del mar / la foca barbuta / sempre piaciuta» canta oggi Vinicio Capossela. Non sa quanti pesci in Sicilia danno nome all’amore: panda, passera, pauru pauru ca cricca, opa, balajola, bupa, bopa, pìchira pizzusa epìchira spinusa, specatrice, piscipoccu,balestra, runcu di papera, sangusu, sapuneddu, scannacavaddu, scannaiaddu, scazzububulu, paddottola, cadduffu, piscisceccu, scrofana, stummu cu un occhiu, taddarita, tenchia, tracina, tremula, umbra, vastunaca, lappara, fravagghia, ciaula, trunzu e mìnula che è la puttana più provocante: un gran pezzo di mìnula, appunto.E forse la malizia è il risarcimento del pesce nell’isola che aveva paura del mare e dunque fuggiva dalla costa e trasformava i marinai in braccianti e contadini, naviganti repressi, coltivatori di grano e agrumi. Perciò la cucina è di terra. L’estate sul mare è festa di ortaggi: caponata, peperonata, parmigiana. Anche la pasta con le sarde è più terra che mare, e sembra l’Etna la pasta con il nero della seppia, il suo bianco cappello di ricotta e la cima rossa di pomodoro. E il capitone è re del Natale solo perché ricorda la salsiccia, sale e ciccia. E lo stoccafisso, celebrato a Messina, è importato dalla Norvegia e cucinato alla genovese. Persino il pesce spada non è stanziale. Cosa ci rimane? La solita metafora. L’occhio di bue, per esempio, detto padella: «Allerta fimmini, ca passa u quadararu, scoprite le padelle e friggete u baccaluru».

6 thoughts on “Il pesce in Sicilia / LA MALIZIA DEL RICCIO

  1. Violetta
    Molto bella la Sua metafora pescivendola. Peccato che spesso io non la voglia aprezzare. I ricci però mi commuovono. Poveracci. Hanno il sangue freddo e stanno coperti d’aghi pungenti. Hanno bisogno di prossimità per togliersi quel freddo d’addosso, ma piu’ si avvicinano, piu’ si feriscono, quindi la loro malizia resta sempre a casa, como un’autoferita, il resto degli esseri vivi proccurano di non avvicinarsene, per sicurezza e comodità.
    Il mare sembra irreale e instabile come il teatro: uno spettacolo che trattiene un po’ e poi si lascia andare. Non si sopporta per troppo tempo quel fingere trafficante e caparbio delle onde, delle tempeste, delle meduse, del malore acqueo del pesce marcio. Della sabbia sporca dal petrolio delle navi scoraggiate in alto mare. E poi, passate le scene colorite e fluenti, il sipario della notte che cala e cancella l’orizzonte senza complimenti, senza applausi, nel silenzio rumoroso del vienivai, senza mereltti di schiuma griggia né spruzzi di sale ed allora non sai che cosa ti aspetta ad ogni passo. Il mare mi piace da lontano e per il giorno. Solo come paesaggio da sfondo. Come un decorato teatrale della natura. La vita reale, altrimenti, mi si avvicina nella solidità, nel tatto, negli angoli riposanti, nelle orme sulle pianure o sui sentieri di montagna. Tra gli alberi ed il cielo. Comunque , come la cucina sicilana, mi sento di appartenere alla terra mite, fresca e tiepida, silente e dolce, piuttosto che liquida, fredda e salata. Ed in piu’, o forse per quello, sono vegetariana! Un po’ traditrice, è vero, perchè ogni tanto non disprezzo un po’ di pesce al forno o al rosto. Mai fritto. Peccato, far finire le creature marine nell’olio bollente come fose l’inferno. Meglio la carezza veloce del caldo liscio e secco. Benché solo sia per il senso di una strana pietà zoologica. Solidale.

    1. Violetta
      Avviso per la gentile Margherita, caso mai lei leggesse questo minitesto; Involontariamente ho radoppiato la “g” di grigia. Mi dispiace. Ma ora è troppo tardi per correggere, Come capita spesso nella vita…peccato! E saluti per ella!
      1. Francesco MerloPost author
        La Sicilia, che è un’isola, diventa terragna per paura del mare che la circonda. Dunque il siciliano si svilisce in un terra arida e senza speranza. La storia della Sicilia ( e non solo) forza l’antropologia degli abitanti di un’isola avamposto che da naviganti si trasformano in rane di terra. Altra cosa è essere naturalmente di terra, come nella pianura padana, in Piemonte… (Paolo Conte quando, in preda a ‘un’idea come un’altra’, lascia la sua Italia di terra per andare nell’Italia di mare ha ‘la faccia un po’ così’, per ‘la paura che ci fa / quel mare scuro / che si muove anche di notte / non sta fermo mai’). Grazie. E non si perda nelle correzioni.
        1. Violetta
          I siciliani che conosco invece sono splendidi. Quella terra mi piace moltissimo. Non mi sono trovata così bene in nessun’altro posto dell’Italia. Amo la Sicilia, con tutte le sue virtù ed i suoi diffetti. È vecchia e saggia. E malgrado la sua stanchezza millenaria, continua ad essere bellissima. Se Lei – che s’identifica come nato a Catania- afferma che i siciliani sono rane di terra impaurite dal mare, sarà perchè lo sa benissimo dall’esperienza. E non sarò io ad affermare il contrario di uno sperto in quella materia da batraci. Ma quei siciliani meravigliosi che conosco di rane impaurite non ne hanno nulla. Saranno marziani ?La nota che parla sulla correzione non era per Lei, era per Margherita, una donna molto amabile e culta che da questo blog aiuta troppo alla cura del linguaggio scritto, scusimi Lei per rispondere da qui ad un’altro corrispondente, ma non ho un’altro modo di farlo. Comunque, grazie!
        1. vuesse gaudio
          IL BACCALA’
          Tragedia in una battuta
          diV.S.Gaudio
          Avrei voluto scrivere almeno un paio di “tragedie in due battute”, alla maniera di Achille Campanile. Ebbene,ho dovuto desister: sia le battute sull’isola Antigua e le altre su Mastella mi hanno fatto pensare, off shore, al “Dramma dell’oceano”, proprio una tragedia di Campanile, in cui i personaggi sono: IL BACCALA’ e NESSUN ALTRO. 
          La scena si svolge in mezzo all’Oceano, ai nostri giorni. Il mare è in tempesta. Ondate come montagne s’innalzano fino al cielo, in lontananza si vede una nave in pericolo. Marinai e passeggeri s’agitano invocando salvezza. 
          All’alzarsi del sipario, o quando va in onda in tv, IL BACCALA’ fa capolino fra le onde infuriate e fissa la scena, la telecamera, con sguardo perplesso.

          IL BACCALA’
          tra sé: Non arrivo a capire se la nave è in pericolo perché il mare è agitato o se il mare è agitato perché la nave è in pericolo.

          (Sipario)
          N.B. Avevo questa tragedia in archivio, è andata a “commento” in non so quale blog ai tempi dell’isola Antigua. Ora, tirato dentro tutto quel pesce per il La Vitola nel post di qualche giorno fa [ http://www.francescomerlo.it/?p=383 per cui una signora floreale invocava la proscrizione, e quindi l’off shore, per il sottoscritto(sic!), ecco che Merlo ci rimpinza lui stesso di pesci[per tacere delle metafore amorose, che, appunto, sembra che si colleghino all’altro mio commento contestato dalla signora floreale e che parlava di cornuti di prescrizione e di proscrizione, un semplice omaggio a Fourier, utopista del XVIII secolo, e a chi quel Falansterio sembra che lo abbia realizzato tra XX e XXI secolo), e pensare che avrei voluto postare un estratto(da un mio saggio linguistico] sulle alici, ma, francamente, sarebbe stato troppo salato!
          1. Roberto Pellegrini
            Leggo e mi colpisce questa pagina meravigliosamente strepitosa, tra quella tragedia trascendentale in una sola battuta e le elucubrazioni pesci-amatorie delle foche odoranti, diventa un caso, veramente. Un baccalà capace di porsi quei sillogismi profondissimi in mezzo alle tempeste d’attrezzatura operistica, e poi i personaggi eccezionali cioè quelle rane siciliane d’adozione, smarrite dalla paura, quelle alici-masculini troppo salate/i per essere mangiate/i all’improvviso , sembra di essere degna di quei testi goliardi del medioevo, come i Carmina Burana, dietro cui nomenclature sacre si nascondevano irriverenti smorfie mentali, pernacchie bigotte, beffe e blasfemie eppure la disperazione di una infuocata genialità da quartiere marginale, ovviamente incompresa. Mai capita dalla lorda sensibilità borghese. Traboccante. Barocca. Persa e sepolta prematuramente nel cimitero della dimenticanza insieme al non-senso e forse al troppo sesso. Come quei pesci e pesce lascivi/e che prima o poi finiscono nelle padelle femminili la cui leggenda canta Merlo -come quel passero potrebbe fare un ’altro se non cantare?- .
            Come metafora teatrale surrealistica,questa esibizione allucinante diventa molto bella. Nel divano del psichiatra potrebbe diventare un’altra cosa, forse non così lieta e divertente.
            Per fortuna il teatro e l’arte in genere, esercitano spesso la virtù, coprendo lo squilibrio umano sotto il cappotto misericordioso della generosità.
            Comunque grazie, Merlo e V.Gaudio, per il rinfresco estivo.


Armando Adolgiso • Coccodrilli

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Coccodrilli
di

Nel Glossario dei Giornalisti, alla voce “coccodrillo” si legge: Articolo commemorativo di un personaggio. E’ pubblicato in occasione della sua scomparsa; in realtà di solito, è già confezionato da tempo.
E’ da ritenersi, quindi, che il prezzolato redattore pianga falsamente l’estinto, e lo faccia perché glielo impongono gli obblighi professionali: il contratto collettivo di lavoro se si tratta di un interno, o un cachet se è un collaboratore esterno.
Il coccodrillo che ora vedrete nuotare (insieme con altri 14) piangono tutti lo stesso morto: il sottoscritto.
Sarò protagonista di quest’operazione, immaginando che la salma da chiosare sia la mia.
Fare un coccodrillo a sé stessi è operazione che altri hanno fatto prima di me, ma qui, se novità c’è, risiede nella variazione di scrittura attraverso cui tento di cogliere i vari redattori all’opera nell’atto di misurarsi con lo stesso defunto, illustrato secondo una molteplicità d’intenzioni, quindici per la precisione. Perché quindici? Perché tante sono le lettere che compongono il mio nome.
E questa – insieme con una pari lunghezza di ogni testo – è la regola che mi sono imposta.
La maggior parte delle parole che seguiranno, com’è nel mio stile, non le ho scritte io, sono largamente  il frutto del montaggio operato fra molti luttuosi brani apparsi sulla stampa, da me collezionati nel tempo; articoli di firme famose, meno famose, e pezzi redazionali anonimi.
Vedrete all’opera di volta in volta, ad esempio, l’affettuoso, l’apologeta, il citazionista, l’enigmista, l’ermetico, il frettoloso, l’indiscreto, il malevolo, il menagramo, lo sbadato, lo scanzonato, il vago…
Non mi resta che augurare buon appetito al coccodrillo. E buona digestione.
                                                                                                                           L’autore
……………………………………………………………………………………………………….
Il Malevolo

Talvolta il coccodrillo è redatto dalla penna di chi mal sopportava la figura scomparsa.
Allora, pur manifestando apparente stima e finta amicizia, il redattore coglie l’’occasione per azzannare la salma con un ultimo morso piantandogli le zanne fra le righe.
E’ chiaro che io, come mostra l’esemplificazione seguente, sia stato per anni sulle palle di chi ora mi mastica. In tutto il testo, infatti, serpeggia astuta la volontà d’offendere il cadavere rilevandone con malizia inanità e irrilevanza.
Che cosa abbia mai fatto a costui, vi giuro, non me lo ricordo.
Assai eloquente è già l’incipit che maschera appena un sospiro di soddisfatto sollievo, seguito dalla prima frecciata.

Armando Adolgiso se n’è andato.
In silenzio, come aveva vissuto.
Solo in ritardo abbiamo appreso della sua scomparsa perché la stampa quotidiana ha del tutto ignorato quella notizia che tanto ha turbato chi scrive su questa stessa rivista che ospitò un tempo suoi interventi. Ricordo che gli articoli di Armando suscitavano perplessità per quel suo modo aggressivo, perfino brutale, di porre le questioni letterarie. Ma quei modi costituivano l’essenza stessa della sua natura cauta ma aizzatrice fino all’assurdo, della sua quieta maniera, eccessiva ed effimera, di vivere la vita e l’arte.
Dell’attività di Adolgiso nello spettacolo (spaziò dalla radio al teatro, dalla tv perfino alla pubblicità), qui non mi occuperò. Non la conosco così diffusamente da esprimere un argomentato commento. Alcuni che meglio sanno di lui in questo campo in cui operò a lungo, sostengono che accanto a momenti di grazia registica, vi furono spesso discontinuità, concessioni allo share e al botteghino. Mi astengo da ogni giudizio, come ho anticipato poco sopra. Ricordo soltanto che una volta m’invitò a un suo spettacolo e dimenticai d’andarci, ancora me ne dolgo, e più di ieri sapendo che mai più potrò ricevere da lui un nuovo invito.
E’ sul letterato, sullo scrittore, che, invece, intendo soffermarmi.
La sua produzione è tutta puntata sull’azzardo, il rischio, la scommessa (pur senza posta in gioco perché respinta dai tanti che, a torto, quella scommessa la ritenevano irrilevante).
Trascurato dalla critica, rifiutato da più editori, ignorato da troppi lettori, fu questo il suo destino di cui talvolta si mostrava ridacchiando fiero (ma dobbiamo credergli?), o non c’era forse dietro quella sua fanciullesca insolenza, inconfessata amarezza? Chissà!
Un gioco estremo che per più versi gli è stato fatale.
Di certo, quell’ostinato negare e negarsi alla narrativa, il maniacale disprezzo per la forma-romanzo, la dispettosa lontananza dagli statuti linguistici tradizionali, lo pone in una terra di nessuno, waste land abitata dagli sconfitti, dai dimenticati, dagli esclusi. Una sorte cercata? Non so. Incontrata per caso? Forse. Insomma: farsi beffe della letteratura accettando (ma ancora una volta dobbiamo credergli?) che la letteratura si beffasse di lui.
La sua poetica è coraggiosamente giocata accogliendo i termini del Niente e del Nulla, da lui voluti indispensabili come l’acqua e l’aria, formando così un progetto letterario terra-aria, terra-acqua, anzi terra-terra che sprofonda in Abisso.
Abile sulla pagina fino a una consumata scaltrezza, sembra ripercorrere nei suoi libri la leggenda delle astuzie di Sisifo, non sfuggendo infine alla stessa pena inflitta dagli dei al figlio di Eolo, la fatica di sostenere il fardello del gioco letterario, senza tregua e senza fine.

Voglio immaginarmelo mentre scriveva il suo ultimo rigo che non conosciamo e che lui non sapeva essere l’ultimo, e dire alla sua penna quelle parole immaginate da Maurice Blanchot: “…Fermati! Con quale scopo continui ad avanzare? Possibile che non ti accorga che il tuo inchiostro non lascia traccia?”. 


L' Antologia "La Micro-Narrazione"
Nuovi progetti di narratori italiani
a cura di Carlo Marcello Conti e Lamberto Pignotti
numero monografico n.10-1988 di "Zeta"
Campanotto editore Udine: 
c'è anche lo straordinario microracconto 
Un esame di Catechismo
di Armando Adolgiso




Gio Ferri • La femme égorgée

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La femme égorgée

Libro II, Canto XII vv 1-24
(variante)
Storie di un Commissario.
Alle cinque del mattino il telefono dà l’allarme. C’è un cadavere. Un altro. Zona ticinese.., Strabiliante sorpresa: sul corpo nudo della donna è posato un foglietto con una poesia di Saffo…Come si iè già sospettato per un primo omicidio, l’assassino è un poeta?

Sì. È l’Ada. E disimmensa eppur non è flacida.
Nulla del crudele Innominato. Persin placida s’appare
e chiara della squassata sperperata giovinezza.
Una collana al collo non perlacea, ma rossastra:
una mano lieve, forse, liscia la gola le torse.
Femme égorgé. Egorgée!
Così divaricata pare aperta, rivelata.
Dolcemente violentata? Ma è diafana, non ritorta.

Debordante grazia, sì, pacificata. Ma l’orrido
è pur nel sanguinolento fiore scolpito nel pube
che al bosco folto si rube il calpestato rubizzo
pistillo dislacciato. Nuda sul ventre possente
all’orrore incombente strano foglio sì leggero
che tremula al soffio d’aria
candido di grazia càlligra
riletto dice… di Saffo e Alceo…

Innaturale richiamo per quella macellazione
alla pudicizia d’un lirismo infante: chiede
che la brutalità si risparmi lo squarcio del
piacere a quella libido della mente, per un senso lieto
di pudiche trattenute
arsure. Incredulità.
Legge il commissario quel contorto contratto,
abisso contrasto:
“tu dolcidula purissima      aulente saffo pùdica
il riguardante Alceo      gli occhi radianti piacere
senti del pudore che      lo frena per quell’amore
di cui ancor pur si trema…”

  [Dall’ASSASSINIO DEL POETA]




Ettore Bonessio di Terzet ● 12 Baci Perugina e quell'ironico paroliere

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BACI PERUGINA

Ettore Bonessio di Terzet



  • Harold Bloom parla sempre, con certo timore, di un Gesù Cristo americano. Si dimentica del Gesù Cristo europeo, africano, asiatico, sudamericano, insulare, continentale, di montagna, di pianura, fluviale, oceanico. O no?
  • Quando la smetteranno di dare del cavallo alla moglie del Principe Ereditario del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda?
  • Ebrei e Mussulmani lottano per la supremazia dei loro rispettivi Yahvè e Allah che sono "parole" simili, se non eguali.
  • Harold Bloom, un grande ironico giocatore di parole, più preoccupato dell'andazzo religioso statunitense che della ricerca di "come stanno le cose in vero".
  • HAROLD BLOOM."Yahvè non aveva letto Platone".
  • La Costituzione Italiana è molto molto datata.
  • ROSSANA BOSSAGLIA è morta. Grande storica dell'arte, grande critica d'arte, grande pensatrice sulle indicazioni artisticopoetiche. Senza frenesie per il passato, senza fanatismi per l'attuale. Equilibrata e rigorosa nel cercare il nesso tra le diverse epoche dell'artepoesia.
  • E quando tutti quei cretini si ricorderanno di aver battuto le mani a degli imbecilli?
  • C'è il dono gratuito che testimonia amicizia e amore. C'è il dono interessato che significa sottomissione e dominio dell'altro.
  • MARGHERITA HACK è morta. Simpatica intelligente allegra divulgatrice.
  • EGITTO. Sistemato dagli USA che passeranno alla Turchia. A tempo opportuno. Accordo con l'IRAN scambiato con la SIRIA. L'Occidente e l'Europa tacciono. Aspettiamo risposta islamici e fondamentalisti.
  • Chi crede non deve dare prove.


  • Carmen De Stasio • Lettera d'amore a un personaggio immaginario

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    LETTERA D’AMORE
    A UN PERSONAGGIO IMMAGINARIO

    ©

    My Soul,
    Potrei ben chiamarLa Anima Mia, poiché ritengo di averLa trovata all’interno di una pagina bianca di un libro sperduto tra le pieghe costrette dal tempo in fondo ad un cassetto di una commode ormai avvizzita come foglia caduta sul dilagante tappeto d’autunno.
    Ci eravamo incontrati in una mattinata di sole lussureggiante, tra gli squarci di una poesia che volteggiava con le sue carte nel vento del tempo. Io L’ho intravista nel fragoroso lucore, L’ho chiamata. Ho atteso un attimo prima che si voltasse. Eh, no, Lei non credeva di ritrovarsi al cospetto di una persona tanto piccina. Troppo piccina perché Lei si avvedesse di me.
    Io L’avevo seguita e poi inseguita. Il Suo bastone istoriato Le era compagno fedele e Lei lo stringeva con l’amorevole abbraccio di un innamorato. Cadenzato il passo, mi piaceva altresì osservarLa tra la folla. My Sir- La chiamavo - sollevando il braccio guantato tra le teste che, impavide e altere, procedevano sulla mia linea.
    My Sirrr!- Mi facevano eco ragazzini scalzi in corsa verso una destinazione indefinita.
    Mi fermai, infine, nell’inconsolabile fruscio della mia voce. La mano a socchiudere il ricamo di un sussurro.
    Sir, attratto da uno specchio appeso al tendone arancio e azzurro di una baracca, anche Lei si ferma. Rimira l’oggetto tra le mani. La cornice istoriata di pregiato legno diventa armonia tra le Sue mani. Solleva il braccio per permettere al suo valletto di pagare.
    Arretro qualche metro più in là. La guardo e osservo i suoi lineamenti. Di gentile tratto il suo viso, Sir.
    In quell’istante Suoi versi irrompono con grave impeto nella mente:
    volteggia la brama di identità
                     nel solco del deserto oscuro
                                    e trama
    indegno afflato
                  per sfuggire la rotta
                                    e cadenzarne una novella
    Il cuore, ramazzato da un folle trotto, inizia la sua corsa e galoppa a perdifiato. Ritempro nel mio affanno la tempesta che nella composizione Lei avvertiva come gemito profondo che avrebbe certamente istoriato di parole efficaci su pergamena.
    I versi si interrompono nella mente. Subiscono lo scacco al re. Bruschi vagano a cercar nuova collocazione:
                                                                  rotta identità
                per sfuggire
                                una novella brama
    volteggia
                                  indegno afflato del deserto
    a cadenzarne una trama nel solco
    Il vento mi assale agli occhi; il petto si lascia sconfiggere da un sussulto. Il ventre avverte lo sconquasso e l’intero mio corpo tremebondo arretra.
    Il verso riprende il suo compasso.
    Ripeto come litania per dar la calma al mio tremare: taci, taci! Smetti di battere, cuore mio e mio nemico.
    Lei, Sir, si volta. Si volta ancora e ondeggia nel passo. La sua gamba. Oh, la sua gamba afferma quel tremore che incalza come danza. Io, sorretta da uno spasmo di orgoglioso affronto, mi accosto a Lei.
    So Kind Man, come potrei io riparare al Suo cospetto con enfasi cadenzata e non rinverdire le tensioni della Sua poesia?
    Attendo nel Suo sguardo sprofondato nel mio che l’assenza di parole scavalchi il muto vociare e intinga nel calamaio ancora una volta la piuma per esplodere con la Sua intraprendenza a dar forma ai Suoi pensieri costernati dal passaggio della civiltà. Rigoglioso uomo all’ombra di se stesso, intento a mietere sentori di conoscenza.
    Assalto alla coscienza che incede cauta a incontrar l’oscuro spasmo dell’inquietudine.
    Mi lascio avvolgere dalla Sua luce, Kind Man. Incarno in un attimo la natura delle sue naturali coste e mi rinfranco nello spirito danzante di un raggio di sole. Ne divengo parte integrante.
    Maestro, vengo a Lei incontro nell’attimo del socchiuso sguardo che mi riporta in un tempo balzato al presente. Forse la mia mente vacilla nel sogno, allevata nel fragore di fantastiche intromissioni in un tempo cadenzato dalle sue trame. Accolgo il deserto del muto viandare e divengo granello di sabbia nella solitudine che tutto infervora e trasla di nuova compostezza l’ordine che Lei ha dato alle cose perché esse avessero accesso alla Sua verità.
    Maestro, forgio nella mia riflessione le abitudini della Sua creazione.
    Quale elevazione ha, dunque, la poesia per permetterLe di vagare con siffatta destrezza e render immagine anche la voce tonante che sorprende in un attimo la mia esistenza?
    Vorrei esser quello specchio in cui Lei rimira forse il Suo occhio, che ingentilisce anche il trascorrer del tempo.
    Lei é il Tempo gravido di consapevolezze. Ed io, sfuggente alla folla, assimilo quello sguardo che nulla infrange delle mie povere coltri di passeggero di un vascello nel mare appiattito dalle casualità per divenire onda e voce, muto silenzio e muto spazio che assimila altrui spazi.
    Esplosione di rigoglio e urlo di libertà. Nei Suoi tempi collimanti con lo strazio del cambiamento, quale tensione avverto che non possa rischiarare l’orizzonte? Accolgo il Suo sguardo assente come eternità poetica. Mi slancio e l’afferro in un fervore inaudito. Scambio infine le mie carte spente con cromatiche luci che riflettono nell’orizzonte nascosto le sonorità della Sua poesia. Del Suo Essere Poeta.
    Del Suo essere Poesia.
    Un Signore di un tempo lontano alita nell’ora il suo sguardo e lo traduce in versi che per sempre resteranno adagiati nell’antro delle mie braccia che il nulla abbracciano. Sarà il nulla per l’altrui sguardo e rigoglio di un’eterna primavera.
    Il primo tempo della vita di chi per una volta e una sola volta per tante volte ancora incontrò per caso le pieghe di un Lord di una Poesia nel richiamo di Libertà.
    Tra la folla La ricordo, My Sir.
    Nel frastuono di un mercato sfiancato dalla folla vedo un tuo ritratto, George. Il tuo sguardo altrove nella lotta.
    Tra la folla afferro il tuo ricordo, George. Il ticchettio di un bastone con pomolo d’avorio mi rammenta di quel momento cancellato dalle rotte del tempo di tanto tempo fa. Nascosto nelle pieghe di un sogno nella luce abbacinante del giorno che attendo per ritrovarTi. Un giorno.



    Carmen De Stasio



    Antonio Verri ● eccola eccola l'invaghita castrata belissa

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    Antonio Verri
    eccola eccola linvaghita castrata belissa

    non capiva curva su mezz’acqua, la betissa
    mentre effluvi su tutta Castro invaghita
    generavano bruchi mostri ecolalie
    rotti cammei così confusi
    cauri voraci, stillanti ortiche
    non capiva
    grassa, vaga com’era
    velata stupida smodata
    il respiro nei fianchi colossi
    questa tenera purissima perdita del gioco
    questa molle massa di rughe e croste
    questa…
    oh arturo dio dio arturo che veli cavalchi abissi
    ti dico è proprio questa la terra
    la betissa grossolana che s’alza s’abbassa s’alza
    in gaia e giocosa serie di scombussoli
    adesso poco convulsa, memma , meneghina
    che tenue sfugge alla meda del règolo marino
    alle pliche di monti porosi, pennulenti
    preda dell’incanto fugatino
    del precario di lassi sonarini
    mentre sfrulla e gutticchia, invaghita, grassa sborrata belissa

    terra non altro che un cuvicchio che ondula
    lùzzica, s’assorbe, in bavi immensi
    in ci sternali, in vore vanescenti
    in crèdule concentriche rose di creta
    in bolle dalla cui stretta spunta
    il ranocchio ansimante
    che scazzotta cazzone non conta
    le mille eresie della rozza ormai soffiata guastella
    ruvida nella ruvida argilla, orca betissa…

    eccola eccola l’invaghita castrata belissa
    che glutei borra e luvarde grasse
    che memme pallide nel pallor riasciutta
    eccola che a mezz’acqua s’alza s’abbassa s’alza
    come grossiera rapita
    in caute pliche, in disincanti
    stupita poi gioiosa
    gaia, idiota, che ancheggia furiosamente
    zompetta nella figura a caso
    nel mezzo mostro rosa
    confisso radicchio di mandragora lessa
    eccola eccola sdentata, purulenta
    come gnomo di casa. Come riflesso del lilla…
    lilla in filamenti
    lilla che schizza e pigro rinuncia
    alla pienezza, al sapore che una eretica spagna
    rufone smargiassa truculenta
    consuma ottusamente in fianchi colossi
    irridendo pura, a capocchietta

    eccola eccola la stronza la grossolana balissa, l’unica
    la serva-capretta che ride della severità del monte
    gastella che monta, spiffericchio
    eccola, eccola, sdentata, gnomo impronunciabile
    che schizza sulla mezz’acqua l’incredula vaghezza
    la vaporiera, la coppa, la breve scostante falaetta…
    dio dio, quasi fessura porcellanata, ridente, dilagante…
    oh adesso terge fonde gengive immense
    gorgoglianti sulla mezz’acqua
    spruzza, gutticchia, da fori avidi avide coppelle
    biffe alla betissa
    e non si placa, oggi non si placa
    proprio oggi non regge
    a questo perder corpo
    il ranocchietto
    &

    è da 0una donna vestita di bianco, che calpesta con i piedi una piccola volpe e legge un libro 0 capitolo quarto di 0 antonio verri0la betissa 0 storia dei curli e di una grassa signora banca popolare sud puglia 1987

    © by Alec Dawson <

    MØ • WASTE OF TIME

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    Karen Marie Orsted

    MØ: “WASTE OF TIME”

    MØ
    .
    A cantora e compositora dinamarquesa Karen Marie Ørsted, mais conhecida como MØ, parece inclinada a provocar o espectador em todas suas composições. Assim como nos lançamentos anteriores, em Waste Of Time a artista usa dos vocais, sons e imagens para prender o ouvinte em um cenário tomado pelo encontro entre o pop e a experimentação eletrônica. Partidária dos mesmos inventos de Grimes (em uma medida menos etérea, claro), a cantora faz de cada instante dos três minutos da nova música um alimento para um cenário excêntrico e ainda assim pegajoso. Recentemente MØ assinou contrato com uma gravadora, o que deve resultar no primeiro registro em estúdio da artista muito em breve.
    .

    MØ – Waste Of Time


    from: miojoindie








    Il violinista con MØ

    Quando ho visto e sentito la prima volta MØ, mi son detto ma questa qui io la conosco, a parte che quando vedo il tipo, mi dico ha qualcosa di LaRoux e non è detto che non abbia pure lei un certo patagonismo, ma anche l’altra quella dei Paramore, la Williams, insomma il genere è quello, quando c’erano quelle ragazze che, dopo la scuola, si andava a mangiare tutti i diospiri  dall’albero dei cachi di mia nonna, e c’erano quelle sorelle che venivano qui a studiare nel delta del Saraceno dalla Basilicata, o quando andavamo nel boschetto non a raccogliere nocciole ma a farci un po’ di petting e poi una si metteva a orinare e l’altra la depositava, intanto che il sole cominciava a tramontare.

    Quante volte ho giocato per strada e nei sentieri andando attorno all’aranceto di mia nonna con le ragazze , che erano come MØ e LaRoux e Hayley Williams, l’aria era frizzante , e mi fermavo a scuotere il noce alto che non so che cavolo ci facesse nell’aranceto, tanto che, è questo che ricordo, fu quella volta che lo vidi la prima volta e cercavo arance dolci e c’era l’odore del fumo nell’inverno che stava arrivando e mi domandavo: sarà poi vero che questa ragazza di Policoro, che adesso lo so poteva essere MØ, come se fosse danese, colla motosega guarda un po’ all’epoca lei lanciava il peso e va a finire che me lo taglia, certo non è che la vedevo così fallica, uretrale sì, per questo pisciava puntualmente dietro l’albero dei cachi, mentre la sorella, più in là,  lasciava tracce del suo metabolismo solido, ora che cammino verso sud quasi sempre a mezzogiorno, dopo aver tagliato l’erba con la falce e vedo MØ con la motosega e un giorno, vedrai, mi dico, verrà qui a cantarmela mentre io che son poeta falcio l’erba e poi contro l’ovest, quando è estate, guardo l’orizzonte in alto e afferro la sua treccia e faccio il violinista.

    by blue amorosi


    Lamberto Pignotti • Propositi lungimiranti

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    © by andie bottrell · "beach easy 1950"



    Propositi lungimiranti



    “Se vuole la presenterò a qualche signora…”
    “… Il fatto è che da tempo, non ricordo più, una diecina d’anni almeno, mia moglie e io non facciamo più sesso”, si lamenta.
    Ogni volta che ha tentato, lei ha sempre detto che non vuole, che non può. Alla sua richiesta di spiegazioni lei finisce sempre col rifiutare qualsiasi discussione; alla fine lui, che dimostra meno di cinquanta anni, ha smesso di farsi avanti poiché non gli va più di elemosinare. Tuttavia non è pronto a rinunciare a vivere, al sesso, all’amore e ha cominciato a cercare quello che sua moglie non gli dà più…
    …“Fai entrare quella ragazza!”
    Poco dopo la giovane impellicciata che aveva visto nell’anticamera veniva introdotta nel salottino. Sotto la bella pelliccia indossava un elegantissimo vestito nero. Era bruna e molto bella. La pesante treccia nera che le incorniciava il volto le dava un aspetto di straniera, di donna d’altri tempi. E aveva le labbra rosse e umide.
    “Le presento questa magnifica signora…”
    Quella sua situazione lo ha alla fine portato a pagarselo il sesso,  e per la prima volta dopo un quarto di secolo è andato con una prostituta. Avvilente. Due ore a parlare, cinque minuti di sesso. Non sa se è stato più appagato dal rapporto sessuale che non è riuscito a completare o dal fatto che ha potuto parlare con qualcuno dei problemi che ha con la moglie…
    …“Perché non ti rilassi e parli un po’ tranquillamente con me? Non sono pericolosa…”
    “Davvero?”
    Si fissarono lungamente, poi la donna esplose:
    “Senti, giovinastro, a che gioco giochiamo? Sei venuto per scocciarmi?”
    Lui, scuotendo la testa, sorrise per rassicurarla. Le raccontò che si era accorto di passare le giornate a pensare sempre la stessa cosa, eppure sapeva che non era solo sesso. Aveva voglia di sentirsi desiderato, aveva voglia di poter baciare, aveva voglia di amare.
    “Mi sono sposato a ventiquattro anni, siamo stati bene all’inizio, poi qualcosa chiaramente è mancato. Ci siamo stancati? Io, mi sono stancato: penso a un futuro senza mia moglie”.
    In quell’accogliente locale aveva in seguito imparato un sacco di cose. Lo frequentò sempre più spesso, con crescente affabilità.
    Tornata presso la scrivania quel giorno – era il suo compleanno -  la padrona suonò un campanello. Poco dopo una di quelle ragazze si affacciò alla porta.
    “Vuoi qualcosa da bere?”, interrogò la padrona.
    “Un doppio whisky e soda”.
    La signora lo guardò con meraviglia.
    “Mi sembri già mezzo brillo… Ti sei dato alle bevande scozzesi? Ami quelle porcherie?”
    “Sì, molto. Quelle di questo genere, per lo meno”.
    Lei rise : “Bravo! Sono anch’io del tuo parere. Vada dunque per due whisky doppi e soda… Ma parlami dei tuoi propositi”.
    “Propositi…”, disse lui sempre più alticcio. “Meglio parlare di sogni suscitati dalla rabbia repressa. Ma non voglio che nessuno mi deluda nel momento critico… Voglio rivalermi, salire, salire di grado. Voglio andare oltre il grado di capitano, oltre quello di maggiore, oltre quello di colonnello… Oltre qualsiasi grado inferiore a quello supremo… Voglio arrivare al comando unico dell’esercito. Prima dell’inizio della prossima guerra voglio avere il comando di tutto… E dopo la guerra voglio arrivare a un grado che nessun uomo, nessuna cosa, nessun evento della natura, mi potrà mai togliere. E’ chiaro?”
    “Sì”, disse la signora.
    “Bene”. Si mise a sedere e sorrise, ormai completamente ubriaco. “Voglio che proprio lei, che fin qui mi ha incoraggiato e spinto su questa strada…, abbia il comando del miglior plotone quando partiremo alla conquista di Venere”. Sollevò rapidamente lo sguardo. “Sorpresa?”
    La signora stava pensando che lui le ricordava qualcun altro. Venere? Era il nome del suo locale…Continuò a centellinare il suo whisky, gustandone la qualità raffinata, e chiese:
    “Immagino la sua invidia e la sua rabbia, quando metterai tua moglie al corrente dei tuoi propositi lungimiranti; o l’hai già informata di questa tua intenzione?”



    L' Antologia "La Micro-Narrazione"
    Nuovi progetti di narratori italiani
    a cura di Carlo Marcello Conti e Lamberto Pignotti
    numero monografico n.10-1988 di "Zeta"
    Campanotto editore Udine





    W.H.Auden ● Mosaico

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    Wystan Hugh Auden

    Mosaico per Marianne Moore
    (in occasione del suo ottantesimo compleanno,
    il 15 Nov. 1967)

    I giardini conclusi della simpatia personale
    sono habitat incantati
    dove veri rospi possono prendere mosche immaginarie
    e il clima accoglie insieme la tigre
    e l'orso polare.

    Così in mezzo ai tuoi (dov'è umano
    sedersi) ti vediamo seduta
    con un largo cappello sotto un'araucaria
    e ai tuoi piedi hai le bestie che per noi hai animato
    pensando ad esse.

    Il tuo leone dalla feroce testa di crisantemo,
    il tuo topo delle piramidi, eretto
    sui suoi artigli Chippendale, il tuo pellicano che si comporta
    come carta carbonizzata, il tuo bue muschiato che sente d'acqua,
    il tuo appassionato nautilo,

    fan fronte a ciò che li sorprende e salutano l'estraneo
    con accento mid-western,
    persino quel dissoluto, la creatura non elefantesca
    che è certamente qui a adorare ed è sovente
    prescelto a piangere.

    Egocentrico, eccentrico, egli chiamerà un gatto
    Peter, una nuova auto Edsel,
    darà importanza al suo compleanno e a pochi altri
    che pensa degni, come noi oggi proclamiamo il tuo nome,
    Miss Marianne Moore,

    che, esigente ma giusta, non sei affrontata
    da coloro la cui disposizione
    è l'affronto, che chiedi il perdono del cobra,
    che sei sempre puntuale e mai scriveresti tu stessa
    errore con quattro erre.

    Per le poesie, dalla grazia delfinica dei carri di Svezia,
    il nostro grazie dev'essere una bella
    e buona salva d'abbaiamenti: è troppo smorzato dire
    «che bene e con quale integrità senza lentiggini
    è stato fatto tutto».


    (traduzione di Aurora Ciliberti)

    da: W. H. Auden
    Città senza mura e altre poesie
     in: "Almanacco dello Specchio", n. 2, 1973
    Arnoldo Mondadori Editore


    &
    W.H.Auden 
    è in :
    Ettore Bonessio di Terzet
    Aracne 2013


    ░ Il treno per Yuma di Elmore Leonard, Françou e Mia Nonna dello Zen

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    Non sapevamo che ci fosse Elmore Leonard, il “Dickens di Detroit”, dietro la trama del treno per Yuma: gli dedichiamo in memoria questo “Poetry-Song” del gaudia 2.0  del 21 ottobre 2012 in cui passava, appunto, il treno per Yuma e…per Taranto.

    domenica 21 ottobre 2012


    V.S.Gaudio • J'menfoutiste e il treno per Yuma di Françou e Mia Nonna dello Zen


    La giovinezza di Mia Nonna se la svigna 
    col  treno per Taranto
    La maturità di una persona non si misura dall’età ma dal modo in cui reagisce svegliandosi in pieno centro, o anche nel boschetto del pantano, con le mutande di mia nonna.
    Che importanza ha allora la giovinezza, specialmente se avete l’equo canone nel paese dove siete nati e dove tutto, dico tutto, è più o meno vostro e voi pagate l’affitto agli ombroni che, con la scusa della carbonella, vi hanno tolto tutto, dico tutto, l’intero paese?
    Se poi la giovinezza se la svigna, fout le camp, peggio per lei, anche perché avrebbe fatto meglio a spegnere la luce, perché la giovinezza non lo sa ma Equitalia, anche a prescrizione avvenuta, pure quando è proprio morta e sepolta, quella la scova e non le chiede: “Beh, dopo tutto te la sei goduta…e allora com’era?”
    Non le chiede nemmeno se si era lavati i capelli il giorno prima, figuriamoci se sta a sentire la giovinezza che, poi, dopotutto, nonostante fosse sempre in fuga, i denti se li era lavati sempre regolarmente.
    Considerate allora: è veramente così terribile il tempo?
    E dunque perché se il tempo non è poi così terribile la giovinezza fout le camp(1)?
    Mia Nonna, quella dello Zen [non quella del petrolio della Val d’Agri, che non mi ha lasciato un cazzo, s’è fregato tutto Manolio che gli aveva fottuto la figlia piccola, che, poi, mentre mia madre era proprietaria dell’uliveto a Santo Brancato, lei, invece, della particella contigua, era solo livellaria(sic!) di Scardaccione], quando la giovinezza se la svignò, e lei fu così che dall’oggi al domani, tornando la sera prima dall’ aranceto dello Zen, dove ogni giorno andava ad ammonticchiare le pietre del Saraceno, divenne mia nonna, non si chiese mai se ci fosse un rimedio contro l’assalto degli anni, oppure come mai in centro a Milano non c’era un negozio d’alimentari più che decente; se prendeva il treno, quella buona donna pensava ancora che prima o poi quello fosse il treno per Yuma(2) e forse fu così che la sua giovinezza se la svignò.
    Una volta che era in meditazione sotto il nespolo mi disse che la cosa migliore è di comportarsi in modo consono alla propria età. E se la giovinezza se la svigna, si la jeunesse fout le camp, le chiesi? L’importante è che non passi il treno per Yuma, né per Metaponto  e Taranto. Perché la giovinezza quando se la svigna, in America va ad ovest, qui si fotte come un mezzo vento, tra est e nord, un po’ si leva e un po’ è una freddissima tramontana.

    (1)La jeunesse, c’est de la fichaise, ce n’est rien et la fichaise=foutaise=bagatelle.

    In argot, se ficher=se moquer=se foutre, ma anche fichtre la jeunesse. E se lefoutre=sperme, « la jeunesse qui fout le camp » è… « una sborrata » ?
    Mia Nonna dello Zen, che, va da sé, poteva anche essere la nonna di Françoise Hardy, e la stessa Françou come stavano a « foutaise » ? Erano delle “foutistes”?
    J’menfoutiste è l’individuo indifferente a tutto ciò che si consuma e passa. Mia Nonna chese fout du monde e Françou qui fout le camp, se ne va, se la svigna dal mio fantasma, non farà più il mio oggetto a fout le camp de mon objet a?
    (2) Quel Treno Per Yuma AKA "3:10 to Yuma", 2007di James Mangold con Chiristian Bale, Peter Fonda , Russel Crowe e Gretchen Mol. E' il remake di un film western con Glenn Ford. Vedi il trailer.
    Un quadro dell'orario dei treni della linea 91 del secolo scorso: 
    da Catanzaro Lido a Taranto

    Boca inmoral ░ La supermarmellata Sharapova

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    La supermarmellata Sharavarenje o Abrikóspova





    Chi è ?
    Maria Sharapova, la tennista che fa le caramelle Sugarpova.
    Dove si trova ?
    A New York.
    Che fa?
    Mostra come la gomma deve sciogliersi in bocca senza lasciar tracce, mentre la colla appiccica le mucose.
    La gente che dice?
    Se vogliamo stare sul dolce dobbiamo sapere che le apparenze ingannano e che la nostra fiducia va indirizzata a ragion veduta. Un mentino, una pasticca all’eucalipto, una Sharapova all’albicocca sono certamente meno importanti di quel che trangugiamo durante i pasti, ma anche le vere polpe di frutta per i ripieni e l’impasto nelle gelatine di  frutta servono a rallegrare l’oggetto a.
    Lei che dice?
    La marmellata, non solo in Italia, è nata male. Con un decreto che stabiliva un prezzo agevolato dello zucchero per i fabbricanti di tale alimento a condizione che lo stesso fosse il componente principale. La marmellata, cioè, avrebbe dovuto contenere zucchero per almeno il 60%. Giacché io sono già in sé Sugarpova, ho deciso di produrre della buona marmellata e la cosa più semplice di questo mondo, anche perché ne farò una produzione mondiale,  è farla con un poeta e l’esperta, anch’essa poeta, della Disney Company Italia che fu Marisa G. Aìno.
    Come finisce?
    Vi diamo qui sotto la marmellata di albicocca fatta per“Cip&Ciop” nel 1992, che riguarda il segno dell’Ariete, il segno della Sharapova e la chiameremo, la marmellata, Sharapova perché come шарах(šaráh) è “lanciare”, “scagliare con forza”( essendo шaр[šar] )  la “sfera”, la “palla, il “globo”, la “marmellata di albicocche” è la “marmellata iperattiva”.
    Inserto redazionale di Marisa G.Aìno & Vuesse Gaudio
     per "Cip & Ciop" n.35
    The Walt Disney Company Italia, Milano settembre 1992

    Ma non è detto allora che la Sharapova a marmellata non possa farsi chiamare Sharavarenje( варенье=leggi: “var’én’je”) o , come fa per le caramelle, se la marmellata Sharapovaè essenzialmente quella arietica di albicocca, Abrikóspova , o semplicemente: Kosnypova (albicocca, in russo, si dice: абрикóс (leggi: “abr’ikós”). Ma, acqua in bocca, non una parola, né una slinguata, con Manuel Vázquez Montalbán, altrimenti salta fuori che questa Abrikóspovaè superiore, per l’uso da farne con le dolicocefale bionde longilinee e mesomorfe, alla patagonica marmellata allo zenzero di Nostradamus!
    Da qui...l'Abrikóspova, la patagonica
    Kosnypova superiore alla Marmellata di Nostradamus

    Lino Angiuli • Il bello del paese

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    Il bello del paese è
    il suono di quattro passi contati ricontati uno alla volta
    la circolazione a doppio senso delle anime purganti
    un paio di concetti appesi col bucato ad asciugare
    le marianne con il rossetto e un’angelina senza cipria
    una cesta di uve e di tramonti raccolti come viene
    una congrega di campanili che parlottano con le loro ombre
    un geranio che si butta giù dalla loggia senza farsi nulla
    il passaparola di un verde sbarazzino per certi versi lazzarone
    quel santantonio annicchiato nella sua cuccia tufagna
    un trotto di nubi bianche sulla schiena di federicosecondo
    il battesimo in bianconero di confetti mandorlati
    il verso di formiche che trasportano a spalla chiacchiere
    e silenzi da un capo all’altro di piazza garibaldi
    andare alla città per trovare il desiderio di tornare al paese
    la morte seduta comoda sul comò della camera da letto
    un cucchiaio di paesaggio dopo i pasti principali
    conoscere finella dalla camminata giovanni dalla voce
    una viacrucis che ripassa a memoria misteri & mestieri
    il quaderno di facce scritte in dialetto per i giorni feriali
    il bello del paese è tutto questo e altro ancora.

    ···


    Il bello del paese è
    quella volta che il giroditalia ci passò vicino vicino
    quell’altra volta che con rino ce ne andammo al mare
    facemmo i ricci e ce li mangiammo pure
    la figlia piccola di melina vestita a maddalena
    un galluccio che fischieggia al centro del piatto
    giannina che si pitta gli occhi tipo grandotèl
    un saluto muto fatto a mano sventolato da lontano
    imparare a potare le voci di dentro mentre si pota una rosa
    sognare una giumenta come fosse una femmina
    il nostro magazzino segreto di luce sul terrazzo
    una controra di domande sulla fine del mondo
    mettersi addosso la domenica come un costume nuovo
    la primavera travestita da settimana santa
    il ritratto stinto del nonno sotto le armi in altritalia
    una pupa di pezza tra i libricini delle orazioni
    quelli che ci mettono una vita di fatica per farsi una tomba
    la moglie saporita di vito che parla zitto con le begonie
    il sacrificio dello spaghetto sull’altare di sangiovanni
    un pezzo di banda con la lagna di sciopèn
    il bello del paese è tutto questo e altro ancora


    ···


     Il bello del paese è
    un ragionamento in piedi senza punti e virgole
    un sigaro ottantenne che sfuma a poco a poco sulla panchina
    pasquettare in un campo abitato da fave signorine
    una grasta con una pianta grassa che fa la guardia al finestrino
    una due campane giuste proprio al momento giusto
    il giornalaio che dice ciao mentre ti dà il resto di soldi minuti
    fischiare uno stozzo di gazzaladra sopra la bicicletta
    una bestemmia espettorata a squarciagola senza ragione
    un orciolo di rosso come una specie di sacramento
    un levante filibustiere che zompa dalla quaresima alle ciliegie
    dire cento volte senza scocciarsi mai lo stesso vocabolo
    che non ha trovato casa dentro lo zingarelli
    il desiderio liscio liscio del calciobalilla perché no?
    l’orologio della piazzagrande che si muove e
    non si muove mentre fa le stesse mosse del tempo
    andarsene all’aceto per gli occhi squattrinati della badante rumena
    il pensiero che cammina a testa alta sotto i pini del corso
    un sentore di scotellaro sulla bancarella delle nocelline
    rosa che fa rossa se sente parlare di quella cosa lì
    il bello del paese è tutto questo e altro ancora.





    Daniela Saitta • La Torino di Fruttero e Lucentini

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    La Torino di Fruttero & Lucentini

    Grande protagonista del romanzo, “straordinario oggetto narrativo”[1] nelle mani degli autori, la città di Torino acquista nella Donna della domenica[2]una fisionomia nuova ed estremamente moderna, geometricamente ordinata e funzionale, ma con un’anima profondamente ambigua, caotica, enigmatica.

    Una doppia immagine di ordinata noia, come se […] la dinastia dei Savoia, costruendo le sue piazze geometriche e i suoi viali ripetitivi, avesse intuito la dinastia degli Agnelli e presagito, con la tipica clairvoyance dei poveri di spirito, la continuità delle catene di montaggio Fiat: la grande tradizione del prevedibile.[3]

    Non era mai finita; non succedeva mai che, per almeno una settimana, un giorno, la città fosse in ordine perfetto, senza una facciata da dipingere, senza un albero da potare, senza una conduttura da coprire.[4]

    Così Fruttero e Lucentini ci presentano la Torino dai netti rettifili e dalle prospettive ordinate, con le facciate tutte uguali e i quartieri tutti rassomiglianti. Una Torino che risulta, per questo, noiosa e monotona. La tradizione del prevedibile è, però, spezzata dai continui lavori in corso che invadono ogni angolo della città. Il caos degli itineranti lavori pubblici, necessari per mantenere l’ordine delle geometrie torinesi, introduce così un elemento di squilibrio e disordine nella città, che sarà origine di turbamento non solo estetico, ma anche e soprattutto psicologico e materiale per i cittadini.
    Una sensazione di attrazione/repulsione nei confronti del caos cittadino è quella ben esposta nei pensieri di Massimo Campi, il quale passeggiando per le vie di Torino, sente “da una parte, il risentimento ‘civilizzato’ contro quel chiasso infernale e quel probabile spreco di denaro pubblico; dall’altra, il fascino ‘primitivo’ della distruzione per la distruzione, l’orripilata ma complice venerazione di fronte alla sacra bestialità del mostro”[5], la ruspa gialla.
    Questo contrasto tra “civilizzato” e “primitivo” connota peraltro la stessa Torino. Una Torino grande, dilatata, convulsa e ringhiosa ma ancora non abbastanza grande, abbastanza metropoli, secondo la teoria dello stesso Campi. Territorio di contrasti, ancora per poco percettibili, tra città e collina, tra spazio urbano tetro, sgradevole luogo di lavoro, e la superstite natura del contado, sede della passione e dell’istinto. Qui si trovano le residenze dei ceti altolocati: la villa dei signori Campi, la Conca di Sogno dei Botta e la valle delle Buone Pere delle Tabusso. E qui hanno luogo gli idilli sentimentali fra il commissario Santamaria e Anna Carla, e il vagheggiare romantico di Lello. È cosi che la collina acquista una dimensione idealizzata, in cui sembra garantito il ritorno a forme di vita genuine. Ma anche a qualcosa di più, per così dire, primitivo, poiché la collina è anche il ritrovo di “tutta la puttaniera di Torino Sud! Tutto il Rotary delle troie!”[6], come dirà Ines Tabusso parlando del suo vallone. Quindi, il contrasto prima delineato sopravvive anche all’interno dello stesso ambiente. La città è infatti, a sua volta, luogo antropologico-culturale per eccellenza, sede di gallerie Vollero, di cinema Le Arti, degli atelier alla moda, ma è pure la sede di due delitti selvaggi persino nella scelta delle due armi falliche – l'itifallo e il pestello di pietra.
    Questa coesistenza forzata di civismo, spesso ipocrita e snobistico, e di istinto primordiale, talvolta delittuoso ed osceno, produce in tutti i torinesi “la schizofrenia del dottor Jekyll e del signor Hyde, di Caino e Abele”[7], come ci riferisce il Campi nella sua acuta e, direi, profetica visione della città.
    La Torino degli anni ’70 non ha ancora compiuto del tutto il trapasso alla modernità socioeconomica: da una parte, troviamo la grande simbolica azienda della Fiat che, con i suoi ritmi di lavoro e di produzione, ha reso la città un colosso industriale, arricchendola e deturpandola allo stesso tempo; dall’altra, resiste ancora la Torino sabauda con il suo “ambiente” altolocato, i suoi perbenismi e snobismi, i suoi rimpianti dei bei tempi andati. Ben lontana dalla Torino deamicisiana, la nuova città contemporanea deve vedersela con gli immigrati, le prostitute, i delinquenti, l’inquinamento, la mancanza di verde.
    Suggestiva è l'immagine di Anna Carla che, passeggiando in periferia lungo l’argine del fiume, pensa alla Boston che non ha mai visto come ad una città con la nomea di essere abitata da gente snob e puritana, ma che ora “doveva essere una città come tutte le altre, piena di negri e di grattacieli e con la solita, sterminata periferia di villette, complete di giardino e doppio garage”[8]. È come se stesse descrivendo la sua stessa Torino.
    Una spiccata coscienza ambientalista appare nelle pagine del romanzo: sembra quasi che il  marciume lungo le strade e le rive del Po stia a simbolo (e causa?) del marcio della società. “Un puzzo antologico di morte vegetale, animale e industriale”[9]stagna nell’aria ferma di Torino, “uno squallore […] calligrafico, perfezionistico”[10]caratterizza le sponde del Po, tra scatolette di sardine arrugginite, neri tralicci e piante solitarie e morenti.
    All’immagine del Po colmo di sassi e rifiuti, si richiamano per contrasto le velleità di palingenesi fluviale[11] dell’americanista Bonetto con il suo slogan “Tutto per il fiume, tutto dal fiume”[12]. Lo stesso Bonetto, però, usa il vogatore nello spazio chiuso della sua cameretta, piuttosto che remare davvero all’aria aperta.
    Un ritorno al contatto con la natura è auspicato anche dal ragioniere Regis, che nel suo discorso ambientalista con il commissario, insinua (inconsciamente?) il suo vero ed unico desiderio: ci vorrebbe più verde e meno cemento, per poter guardare giovani innamorati “appartarsi magari dietro un cespuglio”[13]e soddisfare così le sue  voglie – e quelle di Garrone – di lascivo voyeur. Ecco che ancora ritorna il tema natura-istinto, già enunciato a proposito delle colline piemontesi.
    Particolare attenzione è prestata agli interni delle case torinesi, quasi tutti appartenenti a palazzi antichi e senescenti, e spiccatamente claustrofobici. La cameretta di Bonetto e di Regis, lo studio di Vollero, l’appartamento della famiglia Garrone, ma anche la villa delle Tabusso, danno tutti un senso di oppressione e frustrazione, nelle atmosfere cupe come nel mobilio o nei numerosi oggetti souvenir di una vita passata, quasi ad indicare le vite anguste e deprimenti dei loro proprietari.
    Si trovano poi gli ambienti labirintici, tortuosi degli uffici cimiteriali e degli uffici tecnici, gestiti dai vari Triberti e Pellegrini, i custodi delle misteriose complicazioni burocratiche che si muovono con naturalezza e maestria – se non con ostentato orgoglio – tra corridoi, porte, camere, anticamere e alti schedari.

    Il tema del labirinto si ritrova anche nello spazio esterno del Balùn, il vasto mercato delle pulci torinese, dove merci di ogni tipo, vecchie e sfasciate, sono accatastate sino a formare le alte pareti tra le quali avverrà il secondo omicidio. Se quindi i labirintici archivi degli uffici comunali rappresentano non solo la pedante lentezza della burocrazia ma anche lo stallo delle indagini, la complicazione topologica del Balùn è l’essenza del disorientamento esistenziale di tutta una società. Al Balùn non si reca solo chi come il gallerista Vollero, diviso tra l’animo artistico e il guadagno senza scrupoli, compra di nascosto cornici di seconda qualità per le sue opere da rivendere a prezzi più che maggiorati. Al mercato delle pulcisi recano i Lello che non si sentono mai all'altezza di niente e di nessuno, i Bonetto pseudo-acculturati che sperano in un riconoscimento dai circoli accademici, le signore Dosio che vagheggiano trasgressioni di ogni sorta pur di dare una svolta alle loro vite piatte. Ed infine tutte le Ines Tabusso che si fanno giustizia da sole, credendo di fare la cosa più utile e sbrigativa a dispetto dell’inefficienza della polizia.
    Questa città confusa e incasinata, in cui “niente è quello che sembra, niente sembra quello che è”[14], ricorda la Milano di Scerbanenco, a cui Fruttero e Lucentini devono molto, soprattutto per la descrizione realistica della realtà urbana dell’Italia contemporanea. Non è sicuramente una giungla inestricabile né il male è cosi dilagante come nella Milano dello scrittore di Venere privata. Nella Torino di Fruttero e Lucentini, l’odore non è di morte, al massimo è odore di fritto[15].  Non si tratta di fango e poltiglia per Torino, ma di una profonda sensualità da scoprire, di zone nascoste che gli ignari, i nuovi arrivati, i turisti, non sanno cogliere. Il commissario Santamaria, un siciliano “all’estero”, sarà incaricato di scoprire la profondità di Torino, non solo l’identità del colpevole. Sarà lui a corteggiare Torino, sentendosi a sua volta incoraggiato da questa città a fare le sue avancesad Anna Carla. Perché “dopo tanti anni che ci abitava, lui sapeva ormai che la leggendaria monotonia della città era un’invenzione di osservatori superficiali, o piuttosto un mascheramento da cui l’ingenuo e l’impaziente si lasciavano ingannare come dal neutro pelame mimetico di un animale appiattato. Sotto quell’apparenza così ovvia, di carta messa in tavola, Torino era una città per intenditori”.[16]
    Un atto d’amore dunque nei confronti di questa città ambigua, tra contemporaneità dissacrante e memorie di un passato nostalgico,  dalle mani di due profondi conoscitori di tutte le sue zone d’ombra e di luce, della sua periferia come di quel vecchio centro “chiuso in un guscio forse sicuro, prezioso, inalterabile, o forse invece di una fragilità senza avvenire”[17].

    (da Daniela Saitta,Rosa e giallo a Torino. Il poliziesco di Fruttero & Lucentini, Prova d’Autore, Catania 2010, pp. 29-35)





    [1]     G. Padovani, Delitti imperfetti: Fruttero & Lucentini fra thrilling e parodia, in Id., L’officina del mistero. Nuove frontiere della narrativa poliziesca italiana, Enna, Papiro Editrice, 1989, p. 163.
    [2]     C. Fruttero, F. Lucentini, La donna della domenica, Mondadori, Milano 1972. Ediz. di riferimento: Mondadori, Milano 2001.
    [3]     Ivi, p. 192.
    [4]     Ivi, p. 57.
    [5]     Ivi, p. 192.
    [6]     Ivi, p. 121.
    [7]     Ivi,p. 192.
    [8]     Ivi, p. 22.
    [9]    Ivi, p. 164.
    [10]    Ivi, p. 22.
    [11]    Il termine è di Giuliano Cenati, Le prospettive di Fruttero, Lucentini e le donne della domenica in “Problemi”, gennaio-agosto 2001, n° 119/120, p. 57.
    [12]    C. Fruttero, F. Lucentini, La donna della domenica, cit.,  p. 260.
    [13]    Ivi, p. 385.
    [14]    C. Fruttero, F. Lucentini, A che punto è la notte, Milano, Mondadori, 1979, p. 599.
    [15]    B. Meazzi, Il ventre della città nel romanzo giallo contemporaneo: Torino, Bologna e Napoli, in “Narrativa”, 2004, n° 26, p. 122.
    [16]    C. Fruttero, F. Lucentini, La donna della domenica, cit., p. 108.
    [17]    Ivi, p. 422.
    Daniela Saitta
    Rosa e Giallo a Torino
    Il poliziesco di Fruttero & Lucentini
    Prova d'Autore, 2010

     L'entusiasmo del dorso e la pittura tantrica di Klelia Kostas

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    L’ENTUSIASMO DEL DORSO


    a Georges Bataille
    a Camillo Pennati
    a  Franco Spisani










    quando da che se ne evidenzia la transizione
    da come il senso trangugia l’arbitrario
    e vi permane

    dal radicarvi un segno e la responsabilità
    uscendo sene dal colmo diffuso
    di opulenza in opulenza
    separa cenere e favola

    mentre narra di figure in pulsioni
    a rifiutarne ascesi
    tra nervature

    il gioco ne esce dal sonno
    come segnando il gesto e la finzione che ne corrode l’ombra
    solidale frammento o embrione in reliquia
    in cui si calcola l’amputazione e l’ordine
    come simula
    altera il fondo
    vi giace il senso
    vi altera
    come giace
    vi simula
    a negarsi compiuto
    dai limiti di cui fruisce in bisogno
    a tacere attraverso
    dai rilievi che l’uso rende leciti
    da dire o ricordare
    non ne parte, a liberarsi della referenza
    da cui come coinvolge pertanto ne rende pratico l’atto
    a tacere sul sintagma che si libera per contenersi
    ne distribuisce l’uso, l’emergenza ritagliata
    da quando ne grida invece l’artificio della negazione
    come ne implica la soluzione messa fuori
    di balzo in balzo disperata dal reddito

                  come dispera
                  ne altera il grido
                  vi tace

                  ne tace
                  come altera la disperazione
                  vi grida
    dai profondi dal silenzio di cui addirittura si scioglie
    come scava ancora e corre
    di potenza dal bianco il tempo corroso o docile
    riavvolto
                 (ti richiama l’ombra e la sua obbedienza

    a ricordarsi una gioia a rivolerla sfatta e greve
    intera come dalla colpa in arco
    a riconoscersi in virtù come dal rigido
    il sorriso da cui fugge

    ne segue il problema nella stessa stanza
    ne promette otturazioni

                         (ti conserva l’interesse e la regione che stende l’acuto
                           del rischio cui ti abitua riducendosi
                           l’ampio il vischioso come ne attacca la virtù e la protezione
    a nascondersi a strapparsi maschere
    allora dispone valori possibili negli stessi risultati
    dove tocca alla fine ogni giorno la rete
    ogni giorno ripete l’entusiasmo del dorso
    l’entusiasmo del dorso di cui ne tiene conto
    la trasparenza da cui fervida tentazione sorprende la colonna
    dalla valenza da cui la decenza logora i bordi
                             i bordi altrove come sciopera annaspando
                             e vi si spalma
                             gli ornamenti di cui arma l’estensione
    quanto all’estensione la singolare speranza di restituire
    di termine in termine
    quando ne esce dall’ambito
                             si elimina al compiuto che lo connota
    a odiarsi dunque a contenersi con vigore
    dai certi da cui accetta la riflessione e il significato
    la fonte che poi comprende il necessario, il tempo che ci abitua al suo debito

    la regola di cui sostiene il riposo
    e l’esercizio del corpo,
    la felicità e la delizia di cui osserva il dentro
    l’avida confusione
    il nirvana a cui togliersi in pace
    ai rinvii continui, agli obblighi e al centro
    di cui misura le sottrazioni e l’autentico

    l’autentico di cui ne balbetta l’infinito
    che lo nega all’altro
    le possibilità del multiforme riconosciute nell’immanenza

    l’immanenza da cui rispetta il ruolo e ne fonda il problema
    assoluto improbabile taglia il concreto
    ne fende il privilegio la coerenza del punto di visdta
    da cui a testimone ne annuncia le prese della leggerezza
    non è troppo sorridere dal recente dei reclami
    di cui ne raggiunge l’acme, la ribellione
    la sventura, diciamo che il dubbio allontana la tragedia

    a frantumare i limiti dell’oggetto di cui la libertà certifica
    l’importanza della resistenza, il padre
    si sostiene ai rimandi della sua convinzione
    da una difficoltà che la denotazione sistema
    alle evidenze della connotazione, ne sormonta l’espansione
    che da questo punto si misura la preferenza
    la separazione a cui si tiene
    per la linearità che la costituisce
                   (hai l’occhio, il sole e l’uovo
                    a succhiarne dal torbido i singhiozzi di questo fantasma
                    e la sua storia, la mobilità che frantuma la proprietà,
                    lo sguardo di cui ne divora la risposta
    il tempo stesso dalla costrizione da cui persiste
    l’uso, la genialità della metafora

    lasciami a schiacciare un uovo
    a darmi infine il globulare e il bianco
    a declinare lo sperma, i termini della sua catena
    a mediarne la legalità da cui ne turba la superficie del raptus
    dalla ferita da cui colma distanza e correttezza
    di cui carnefice immobile a disfarlo
    a contemplarne il trionfo che suggerisce l’ordine
    la vittoria di cui ne scegli i fili
    in una parola ne sfabbrica la sostanza, ne distribuisce i viluppi
    senza dubbio ne sviluppa il neutro che lo accosta all’utile della circostanza
                    (hai frammenti di cui avrai il tema
                     a ripeterne l’ossessione, le giunture dello spostamento
                     a rendere funzionale l’immagine
                     a togliersi al profilo che rispetta il virtuale
                     da cui il profondo si prospetta non agli appelli
                     da cui non cita che all’ordine il significante che lo mobilita

    ( Pantano di Villapiana, 4 settembre 1975)


    £ Da: v.s.gaudio, l’entusiamo del dorso, in: Idem, Sindromi Stilistiche, Quinta Generazione 1978; l’entusiamo del dorso era apparso corredato di un disegno di klelia kostas in “Lettera” n.9, Cardiff 1976 £


    Klelia Kostas, 1977(disegno originale
    espressamente per cover di V.S.Gaudio,
    Sindromi Stilistiche, 1978; collezione privata)






     La pittura tantrica di Klelia Kostas



    Klelia Kostas, 1978( (il quadro è a colori;la riproduzione in bn è stata
    effettuata da "Lettera" n.18, University College Press,Cardiff ottobre 1979)
    da "Lettera" n.18)



    Con il supporto di Une methode nouvelle de synthèse di Sallantin(Arcueil, 1970), abbiamo valutato, negli anni settanta,  l’identità e i momenti differenziali di alcune articolazioni iconiche di Klelia Kostas[Sanremo  12 settembre 1932-Torino febbraio 1983]; di quel testo, si riporta qui di seguito solo la parte conclusiva:




    · Il tra come attuazione semantica della sessualità
    nella pittura tantrica di Klelia Kostas

    I tratti semici del contorno si costituiscono dai margini che il modello di competenza offre; la comprensione si accorda dall’incontro dell’associazione extrasemantica con associazioni primarie extra convenzionali: la giuntura non è offerta dalla metafora ma dalla ricomposizione stilistica del confronto, l’evoluzione semantica esita, per stare nei tropi, tra allegoria ed enigma, come forma del contenuto; come riproposta metonimica dei valori estratti da un dato simbolismo collettivo, come forma dell’espressione.
    Lo spostamento, che da tale intenzione si nomina, non è un trasferimento affettivo dell’intenzionalità, né prospera all’interno del movimento:
    dal fondo, come relazione del macrocosmo, la figura concede l’identità della propria potenza, l’elargizione si moltiplica dal biologico( e dalle regole che la cultura vi sistema sopra) liberando la linea dal colore, che apre la presenza e i suoi archetipi; la sete che combina i semi è come una matrice avverbiale iterativa, la composizione lunare del corpo femminile appartiene allo sperma e alla sua emergenza cromatica, al vermiglio del mestruo si riattorciglia il fondo, la trasmissione dei piani è il controllo stesso della differenza.
    La posizione cromatica è fissata in ordine alla cromia del simbolismo collettivo, l’uscita non è che una rinuncia mediante la reciprocità delle identità o dell’identico, il tra[i] vibra con l’attuazione semantica della sessualità, l’uovo ha bisogno di una appendice, quella che ricomporrebbe le parti sensoriali.
    Come sistema verbale, il metonimico dei comparativi si definisce con l’impiego indefinito dei simboli che traducono i vari centri sensoriali, la costellazione sintattica ripropone la composizione predicativa che il soggetto ha nel proprio fuori.
    Quindi, l’uscita economica della linea e del colore di Klelia Kostas è una diffusione del segno, che collima con la seduzione del significante; il significante non sta nella perifrasi, come sembrerebbe, ma non esce dalla decenza della risonanza, l’avvio alla espulsione si consuma sulla cresta dell’unione, cioè sull’ombelico che è l’orizzonte che l’identità attraversa; l’esercizio,  c’è da dire, si ritiene oltre le giunture sintattiche della valenza dellalinea più che del colore[ii].
    Al colore ridiamo invece la possibilità di un sorpassa mento dell’affettivo.
    [Torino, 27 luglio 1975]  

    [i] L’oscillare del tra, il rapporto di moto, è il limite che individua la differenza tra lo psichico e il fisico: in pittura,qui nella pittura della Kostas, questo tra, come forma dell’espressione, sarebbe il punto e, come forma del contenuto, lo spazio.
    Klelia Kostas, 1976(l'originale è un disegno in bn: illustra :
    V.S.Gaudio, L'entusiasmo del dorso, in "Lettera" n.9, Cardiff
    giugno 1976)
    [ii] La linea  e  il colore peraltro si potenziano attraverso la definizione verbale dell’enunciato: il dichiarativo si rinforza così con il neutro dell’emozione, non è che entri nel decorum, né si adegua alla qualifica dei toni; l’espressivo della funzione comunicativa si predica oltre la sfera del soggetto, sembra che l’indispensabile del verbo sia la valenza che giustifica e rende operativa la sfera del predicato.
    Klelia Kostas, 1978
    (il quadro è a colori;la riproduzione in bn è stata
    effettuata da "Lettera" n.18, University College Press,
    Cardiff ottobre 1979)




    Folco Portinari  Scatola n. 2

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    Folco Portinari

    Scatola n. 2


























    madre ( nella doppia formulazione di madre mia e mia madre,
    oltre il vocativo: madre ), vigna, latrina, sarmenti, asino, fico
    d’india, stalla, corvo, carrube, miseria, soma, stanza, grama ,
    cafone, collina, giorno, scialle (inevitabilmente nero, tranne
    nel caso di fanciulla vergine: allora bianco o candido, ma meglio
    come candido velo) , nenia, pecora, casolare, rosario, ragazza,
    lutto, roncella, calanchi, spiga, origano, oltremare(facoltativamente
    preceduto da laggiù), mulattiera (s.m.) , zirlio, capretta, muro, carro,
    fanciulli, zampogna, focolare, morti, pietre, belato, valle, trainante,
    orazioni, stabbi, falce, trazzere, padrone,
                                                l’America,
    civetta, paese, zappatore ( surrettiziamente bracciante ), gemito,
    granoturco, padre( nella doppia formulazione di : padre mio e  
    mio padre, oltre il vocativo: padre)

    nero, bianco, grigio, verde( pochissimo, da usarsi con molta discrezione)

    ahimè, no, mai
    freddo, sporco, scalzo, invalido , pio, selvaggio/a, insonne, vecchio,
    libero, violento, odoroso, sterile, calcinato, povero, vespertino,
    tiepido, triste, maledetto/benedetto, scarso

    andare , fare , lavorare, sudare, faticare, piangere, scavare,
    soccorrere, camminare, sotterrare, pregare, belare, giocare,
    lottare

    Nel materiale di questa scatola aggettivi e colori sono ridotti al minimo perché la composizione che se ne può realizzare acquista in incisività se contenuta nell’oggettività sostantivale. L’austerità ideologica ( come ben richiede il populismo contadino) ne è pure meglio garantita. Può risultare opportuno, eccezionalmente, offrire alcuni materiali compositi:

    ventre gonfio, folla di stracci, sangue greve, vecchi sentieri,
    acqua pura,
    mandorla vizza, uccello siepale, stella forcuta,
    ristoppie arse, reseda selvaggia, teschio del lupo.


    Si consiglia l’uso, sia pur contenuto, del vocativo, dell’esclamativo e dell’ottativo. I verbi si possono tenere all’infinito, in rima: ciò dà nel popolare.









    è Folco Portinari 
    DO IT YOURSELF 
        L’arzanà – Il Piombino  
          Torino –Alessandria 1984


    Carlo Cignetti  Haiku

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    Carlo Cignetti 
    £Haiku




































    £ Haiku (primavera)

    impermanenza
    vince pervinca viola
    parvenza vile

    £ Haiku (estate)

    tremante fuoco
    -sopra fogli di foglie
    follia estrema

    £ Haiku (autunno)

    musica amica
    mi fare sì la vacui-
    tà del silenzio

    £ Haiku (inverno)

    deserto oscilla
    -al desertore splende
    vacilla luce


    ê da &una rosa è una rosa e una rosa(ed. sarenco-verdi) antologia della poesia italiana 1960-1980, factotum book verona 1980

    Ellie Goulding • Il bel canto di Eponine

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    Ellie, la stessa cosa che Eponine-Chianine

    Come Chianine mi ha sempre dato l’impressione Ellie che per sollevare la gonna, o abbassarsi gli short, abbia bisogno di energie, ma ben più per parlarne bene. Come “Madame Belcolorito”, che è Eponine di Georges Bataille, sembra che ci faccia amare la paura che l’umanità ha di se stessa; la prodigiosa umanità che risponde all’esigenza dell’istinto e alla fatalità irrimediabile. Nei confronti della gioia, tra sospiri e lacrime, è un po’ come il cielo nei confronti del granello di sabbia: e quando l’oggetto apassa al meridiano del poeta o del visionatore questo gode e i cieli si rovesciano su di esso, anche perché la certezza quasi solare di Ellie è sempre nell’orbita del favore dell’oscurità di Chianine, che – così fa intendere Georges Bataille ne “L’Abbé C.”- è dentro la certezza assoluta di poter insozzare infinitamente anche la più sozza sozzura.


    Eponine – scrive Bataille – ha lo stesso cuore, e la stessa lordura dentro al cuore, che è sempre dal lato dell’amore degli umili, la gentilezza, il dinamismo di giovanili studiosi di teologia, le grandiose cerimonie, questo quotidiano tra l’erba e il pantano, un po’ come nel cuore di Deus Sabaoth. Così, all’inizio un’angoscia, infinitamente sottile, infinitamente forte, ed è il poeta in quello, l’oggetto a, chiamato voce e ha la sottile delizia, foss’anche obliquo o di lato un po’ gaudio, di entrare nudo nella camera di un altro o vederlo tirare lo sciacquone e, col sedere nudo, in piedi, si mette a ridere come un angelo, mentre Eponine depone sull’erba, se la vedessero gli occhi uscirebbero dalle orbite, come vedere uno spettro, lo spettro di una persona amata: una specie di delirio-delizia, di spettrale delirio, tra il tramonto – che forse ancora non è venuto- e l’erba d’una intensità eccessiva come quando la pioggia l’ha bagnata e il cielo le sta addosso, con l’angoscia che non chiude soltanto il cuore, è il cuore che stringe a sé l’angoscia, o piuttosto Chianine-Ellie, la sua angoscia stretta al cuore, il poeta come stringerebbe una donna e dentro la delizia “in cui Chainine chianine , da questo cratere maestoso, la notte è il ventre della lava: senza fiato, bel canto , perde la respirazione”, semplicemente al meridiano del poeta Ellie, la stessa cosa che Chianine e Eponine, questo fa tra l’erba e il sole all’orizzonte, come un sole alcionico, fa la stessa cosa di Eponine, depone angelica vede il cielo svuotato dal vento e più indecente del poeta col sedere nudo che si mette a ridere come un angelo che ha appena fatto,è il cuore che strnge a sé l’angoscia, la sua angoscia stretta al cuore del poeta: senza fiato, la notte, e il sole è ancora lì all’orizzonte, è il ventre della lava: senza fiato, bel canto, trattiene il respiro.

    · by v.s.gaudio



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