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Ettore Bonessio di Terzet ▒ Trittico per Nicolas de Staël

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Trittico per Nicolas de Staël 


 La Cathédrale, 1955

Un istmo di strada nera
si blocca al portale,
il cielo mangia il campanile
di una cattedrale bianca,
blocchi giallastri
striscia di rosso,
equità e giustizia
tra colori in una
inconsolabile speranza.


La Route d’Uzès, 1954

La strada corre gobba
Tra campi neri
Un verde compatto.
Respinta ogni fuga
Dietro non c’è niente
Che spinge al varco quasi
Invisibile, ma due bianchi
Fanno correre la mente
Cercando una curva sinistra.


Paysage, 1954


L’orizzonte una sottile linea
impastata di rosso e giallo
ebbrezza e inconsistenza,
un grigio di collera tenuta
non il grido che circonda
tutto di un peso che pesa.

Alessandro Gaudio  Il limite di Schönberg 

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Alessandro Gaudio
Il limite di Schönberg
Il principio ibrido, il disagio e la mancata fine del romanzo
Ricerche estetiche
con testi di V.S. Gaudio
 Prova d'AutoreCatania 2013


Questo volume raccoglie saggi e interventi pubblicati, spesso con titoli differenti e modificati nella forma, su «Lunarionuovo», storica rivista catanese diretta da Mario Grasso, eccetto un paio ospitati da «Allegoria» e dal «Ponte»; il più delle volte, gli scritti di Alessandro Gaudio sono stati affiancati da testi di V.S. Gaudio, in non pochi casi differenti o più estesi, rispetto a quelli qui antologizzati, nell’ambito della rubrica di critica e di letteratura intitolata Il limite di Schönberg.
In essa si è tentato di usare congiuntamente le armi dell’analisi, della ricerca e della letteratura (senza abolirne le differenze) nel tentativo di sintetizzare un’idea di critica che sia in grado di osservare il suo oggetto da punti di vista inconsueti, sorprendenti. Da un oggetto, da un volto, da un’immagine allo specchio, da un sogno, da un inatteso riferimento si è desunta liberamente (cioè criticamente) una regola estetica che servisse a spiegare il modo soggettivo e incerto in cui il romanzo è possibile e, proprio per mezzo della scrittura, ad affrontare la realtà (incerta anch’essa), a osservarla e a distinguerne le contraddizioni.
Così, il particolare, individuato di volta in volta, si rivela incommensurabile perché ritrova, dopo un lungo processo di condensazione (di speculazione e, con V.S. Gaudio, di drammatizzazione della creazione speculativa), un carattere nucleare, universale. Nell’oggetto incommensurabilelo scrittore, vero e proprio superstite ma anche scienziato, scopre una tensione duale, dialogica e antifrastica allo stesso tempo, che è insita nella stessa nozione di limite, che riguarda la storia, il corpo, la scrittura dell’Io, il cuore complesso, disorganizzato e continuamente ripensato del mondo e che considera quanto di tutto questo sia stato usato e tradotto in romanzo da autori come Raymond Carver, Flannery O’Connor, Philip Roth, John Fante, Arthur Miller, Henry Miller, E. L. Doctorow, Arno Schmidt,Edgar Hilsenrath, Witold Gombrowicz, John Edward Williams e molti altri.
Di volta in volta per questi autori non c’è niente che valga la pena di fare, la vita non può migliorare, la casa sembra una tomba, il rubinetto perde, la serranda è rotta e il vicino non ha un aspetto rassicurante, eppure essi continuano a scrivere, racchiudendo ogni cosa e ciascuno degli oggetti da cui si sentono incalzati in un luogo eterotopico esemplare, margine antiumano di esclusione e ombra della loro stessa vita, direbbe Shakespeare, ma pur sempre luogo di desiderio che, pur non riuscendo ad appagarsi nel pieno possesso della cosa, li rende vivi, forse proprio perché maggiormente consapevoli del loro fallimento di uomini.


Alizée  Le petit caporal ou la machine-à-moulure?

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Alizée mon Petit Caporal 
non è Aurélia Steiner d'Ajacciu

Alizée non è Aurélia Steiner d’Ajacciu,  quella che abita ad Ajaccio
e che non girovaga spesso nella sua città,
della quale altro non sa se non che aveva dato i natali all’imperatore Napoleone.
Non è nella camera oscura, Aurélia Steiner non mi ha parlato di quegli amanti
del rettangolo bianco che si ritrovano nell’atrio del Musée Fesch con in mano
una moleskine, la matita e il biglietto d’ingresso.
In quel museo, tutto quel tempo che non restammo a guardare la Madonna di Cosmè Tura e quella della Ghirlanda di Botticelli e altri dipinti tra cui quello di Pietro Paolini che tanto affascinò W.G. Sebald, e, così ricordo, non guardammo per niente La Pentecôte de Mariotto di Nardo, une tempera sur bois du XIVe siècle, la Vierge à l'enfant de Giovanni Bellini (XVe siècle),  la Vierge à l'enfant dans une gloire de séraphins, une huile sur bois du XVIe siècle réalisée par un anonyme ombrien et Midas à la source du fleuve Pactole, huile sur toile de Nicolas Poussin, datant du XVIIe siècle : étaient posées sans la moindre surveillance e difatti les quatre tableaux  furent dérobés au musée Fesch le 19 février 2011.
 Alizée  ha la canonnière che avrei potuto chiamare “Petit Caporal”
e non  “Joubertière", le "Barthélemy" ou la "Machine-à-moulure" ou la "Giberne de Joubert",
la Joubertière : «Ah ! Si le Petit Caporal  était encore là ! »
E fu davvero impensabile quando un giorno,
senza sapere come avesse avuto il mio indirizzo,
trovai questa sua lettera, una lettera d’Alizée, che, voi pensate,
sarà allora questa la lettre d'Alizée:
“Le mie passeggiate per Rue Cacalovo o in Place Foch
per scendere alla Cittadella con i jeans,
je suis le jeans d’Ajaccio, che nell’ aria
si sposta di traverso con una frescura calma
che accarezza l’inquietudine,
cette joie de mon allure en jeans,
la joie, le bonheur,  d’Ajaccio aussi blanche et bleue, e di là le forze
e i monti selvaggi dell’interno, e che cosa ne sappiamo noi del corso della storia
che procede – così scrive Sebald- secondo una legge la cui logica rimane indecifrabile
e viene messo in moto da eventi minuti e imponderabili, tali da cambiarne spesso
la direzione al momento decisivo, come la morte improvvisa[i] di Joubert in Italia
e l’ascesa infinita e successiva di Napoleon:
una corrente d’aria appena percepibile, una foglia che cade a terra,
uno sguardo che corre da un occhio all’altro in mezzo a un gruppo di persone,
et vous êtes le poète, et je suis, moi, Alizée Aurélia Steiner,
e tu ami questo mio  pondus d’Ajaccio così poco napoleonico,
voi amate la letizia e il movimento joubertienne de mon allure,
questo deflagrare improvviso
che di notte sveglia il mondo, oggetto a al meridiano d’Ajaccio,
et je suis là-haut in Rue Cacalovo ou sur la plage Trottel
ad allietarvi l’anima di Barthélemy che scoppia in Corsica
all’improvviso dopo un silenzio assoluto
che forse non è durato che qualche secondo appena.
Vous m’aviez dit dans la chambre obscure
ou quand je vous croisé ce matin en Rue Cacalovo
avec ma jupe grise sous laquelle mon con suintait:
cette ville engloutie, c’est notre terre obscure.
Il n’en reste rien, numerosissimi erano qui un tempo
gli stambecchi, sopra i crepacci volavano in cerchio
aquile e avvoltoi; fringuelli e lucherini saltellavano
a centinaia in mezzo alle fronde, quaglie e pernici
facevano il nido sotto i cespugli più bassi, e ovunque
le farfalle ti svolazzavano attorno, così scrive W.G.Sebald
e aggiunge: “Pare inoltre che gli animali in Corsica fossero di
taglia alquanto piccola, come spesso accade sulle isole”[ii].
Invece, e questo dimostra come Alizée, per quanto sia nata ad Aiaccio,
non possa in alcun modo essere Aurélia Steiner Corsicano, né  che potesse
avere l’allure de travers, de femme sentimental-amorphe, in cui c’è l’ombra
del paradigma nervoso, qui donne à sa allure un touche de tendre eclatance ou de claireté
tendue, come se il vento sferzasse il suo podice con un angolo di 90°,
anche  se – e questo è quello che entra dall’orecchio, come disse Jacques Lacan in un
suo seminario – mi parve, nel leggerla tutta la lettera, che prima lei m’insufflasse:
“Ecoutez, l’entendez-vous?
Non?
Vous n’entendez plus rien peut-être ?
Non ?
Ecoutez encore. Essayez. Essayez encore.
Comment venir à bout de notre amour ?
Avec le bout, je viens à bout de notre amour ; avec la punaise que j’entends.
Ecoutez encore. »




E poi, dopo averla letta questa lettre-ci :

J'ai la peau douce
Dans mon bain de mousse
Je m'éclabousse
J'en ris !
Mon poisson rouge
Dans mon bain de mousse
Je l'emmitoufle
Je lui dis :

J'ai pas de problème
Je fainéante
Pas de malaise
Je fainéante
Dans l'eau je baigne
C'est l'important
Bien à mon aise dans l'air du temps

J'ai la peau douce
Dans mon bain de mousse
Je brûle à l'ombre
Des bombes
Tout est délice
Des lits des cibles
Je fais la liste des choses
Qui m'indisposent

{Refrain:}
J'en ai marre de ceux qui pleurent
Qui ne roule qu'à 2 à l'heure
Qui se lamentent et qui s' fixent
Sur l'idée d'une idée fixe
J'en ai marre de ceux qui râlent
Des extrémistes à 2 balles
Qui voient la vie tout en noire
Qui m'expédient dans l' cafard
J'en ai marre de la grande soeur
Qui gémit tout et qui pleure
Marre de la pluie, des courgettes
Qui m' font vomir sous la couette
J'en ai marre de ces cyniques
Et dans les prés les colchiques
J'en ai marre d'en avoir marre
Aussi...

J'ai la peau douce
Dans mon bain de mousse
Pas de secousses sismiques
Je me prélasse
Et me délasse
C'est mon état aquatique
Y'a comme un hic!

{au Refrain} "
J’ai vu l’étendue de son cadran lunaire, l’étendue du méridien, l’heure du bonheur,
l’inquiète étendue introvertie de son allure, non l’ étendue joubertienne, oui: le degré haut de mon cas, le Berthélemy,  je voyais l’étendue napoleonique, le Petit Caporal, son état aquatique
e quante volte la sentii cantare:

Je marche et je suis dans ma chambre avec le dildo 
J'ai la peau douce
Dans mon bain de mousse
Je brûle à l'ombre
Des bombes
Tout est délice
Des lits des cibles
Je fais la liste des choses
Qui m'indisposent
Nous devrions nous rapprocher ensemble de la fin,
Je ne sais plus être à genoux,
Avec le Barth(élemy) sur mon cul
Sur les talons, je ne vous sépare
De notr’amour, de votre ça.
Je me prélasse
Et me délasse
Sur le prepuce
Oh si est gros le monde est mousse
Le monde douce de la délice
Le grand bonheur du grand p.
Je n’ai jamais marre
À jouer de la guitare
Oh mon bonheur
Je n'ai jamais marre!




{au Refrain}


[i] Frappé d’une balle en plein cœur, le jour de l’anniversaire de Bonaparte.
[ii]  W.G. Sebald, Breve escursione ad Ajaccio, in: Idem, Le Alpi nel mare, trad.it, Adelphi Milano 2011:pag.59.
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Leggi anche 




giovanni fontana 
feat. v.s.gaudio
play 
alizée 
>
j'en ai marre

Carmen De Stasio ░ Ladybird

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Mia cara,
Da tempo distratto pensavo di dedicarti delle parole. Come ben sai, le parole sono semplici gesti del pensiero. Non mi piaceperder tempo. Me lo conquisto e sogno del gioco. Così come il gioco rende la luce dei movimenti. Parlo dei miei dilatati nella parola.
         Non so se qualcuno ti abbia mai dedicato una lettera. Anzi, conosco la risposta. Sì, certo. Ascolto le vibrazioni del vento tra le fessure assenti della porta. Il pensare mi introduce in un tempo solcato nelle trame della Terra Desolata. Ma nessuna terra può essere desolata se esiste il pensiero dell’uomo a nutrirla e a sedimentare tra le rocce l’immagine di un gioco.
                   Mia cara amica – spero di poter chiamarti Amica.
         Amica mia preziosa, non esiste un motivo logico per questa mia lettera. Questo ti rivelo. Intanto passo sulle unghie un laque civettuoso amaranto tendente al bordeaux – per altro deliziosa città alla sinistra secondo la cartina geografica, ma al centro del pensiero se un pensiero a lei si dedica. Sontuosa nell’algido silenzio che imbastisce trame di storia e di situazioni con i corpi in movimento. Uh! Avverto il soffio e la fretta di andare.
Chiunque va sempre da qualche parte.
Fa parte tutto di te e tu assisti leggera alla tua creazione.
         Ti chiamerò,Vita. Piccola e intensa Ladybird. Coccinella di vita e Vita essa stessa. Sovente ho sentito aleggiare questo nome. Chissà cosa investe in ciascun tempo e di ogni dove – anche adesso e un attimo dopo il mio adesso ormai trascorso – a osare il tuo nome.  Un nome sovente risuona. E’ il tuo. Vita del vivere. A te è dedicata forse l’immane sofferenza che fertilizza attraverso spasmi di gioia la visione di una Vita che non un paio di forbici potrebbe mai recidere.
         Io sono a te devota. Strano, dunque, che ti ritenga mia Amica? Per tua fortuna sei stata e sei fortuna. Continui il tuo cammino. Talora vestendoti delle cromie dilette di una proiezione. In piedi, salda nella terra o intenta a sprofondare nelle sabbia calda e gelida della notte nel deserto. Oppure a saltello sulle rocce e su spuntoni risalendo un canyon.
         Non ho mai risalito un canyon. Ho risalito il fianco di una cascata e là ho avvertito sensibilmente cosa tu fossi e cosa fosse respirare te. Vita.
         Ho accarezzato le fronde odorose di un aroma irripetibile. Ho trattenuto un nerbo di albero frondoso per avvertirmi nella solennità della natura che mi incorniciava il corpo e il volto. Ho lasciato cadere sul mio corpo tessiture d’acqua gelida e le ho abbracciate nel linguaggio dell’amare di passione. L’amare del mio sempre presente e dei miei passati che sono tali solo perché trattengono tempi diversi rispetto ad adesso, all’oggi e al futuro. Ma che rendono il loro odore come sensazione olfattiva viva. Presenti.
         Mia cara,
         Mi piace sorseggiare questi calici essenziali. Sono nella sensibilità del vivere che infrange lo specchio opaco del finire. In fondo, nel vivere esiste sempre anche il finire. Il senso e il non senso. Ma non l’anti senso. Sarebbe allora opportuno parlare della non vivenza. No. Come si potrebbe coniugare il non vivere nel fondo? O anche non tanto in fondo. Una sala imbiancata dal bianco della necessità. Preferirei che le pareti mobili siano nobili colline di colori, sulle quali veder spuntare da pertugi canterini coniglietti e topolini. Di loro ho scritto e ancora scriverò. Sei tu che me lo chiedi,Vita. Contraggo lo sguardo. Respingo la luce, ma la luce mi resta dentro. Affollo pagine nella mente e appongo la parola “fine” nelle asperità del non scritto e del non detto. Ma sempre ho pensato e a te e per te ho sempre pensato come corpo. Materia del vivere.
         I corpi sono nuvole talora in forma di densa panna montata. Forse per qualcuno le nuvole sono labirinti in cui lasciarsi cullare o luoghi in cui trascenderti e sparire. Le nuvole sono favole e fiabe in forma di aquiloni. Gli aquiloni sono il sogno. Sogno che non sia bugia. Le bugie dissolvono la vita e il vivere sua ombra. Disturbano e scardinano le armonie che trattengono sintassi di una storia concepita attraverso lo scatto fotografico di specchio che allontani la specularità.
         Io mi specchio qualche volta. Nello specchiarmi mi racconto storie diverse perché così ho tante vite e tanti vivere. Ogni volta sono diversa perché diverso è il tono del vedere all’interno dello specchio. Supero la lastra e ti incontro in un nuovo appuntamento.
Nel frattempo ondeggio con il mio aquilone.
©anonima del gaud by awelltraveledwoman


Diventeremo fiaba e il nostro luogo saranno le nuvole.               
                                                                                
                                                                Un aquilone

E’ il tempo, finalmente. Il momento essenziale del volo.
Le ombre e il fruscio di teneri steli d’erba roridi di rugiada accompagnano il canto silenzioso del volo. Intorno alla manopola la corda si tende e qualcosa inizia ad accelerare la corsa verticale.
Lo sguardo punta su nel cielo. Gli occhi strizzano accecati dalla luce impossibile di un sole che sconvolge. E’ infine meta. Volerà l’aquilone verso quel sole e punterà in alto. Sarà un volo obliquo, in sospensione tra il cielo e la terra. Tra l’incognito aire e la determinante energia che spinge dal terreno. Forzerà i limiti contenutistici della gravità. Traslerà in un disegno secondo il quale realizzare il suo sogno. Nel suo momento.  
Il volo-aquilone vivrà le cose. Primo attore di passaggi tra le nuvole.
Lontano, continuerà a librare nell’aria seguendo un suo ritmo, spinto dalla brezza e dondolando nel vento. Frusciante e disinibito con il suo vorticare intenso e deciso, morbido, vellutato nel solco di passi invisibili.
Arcana mistura di essere ed esistere, il mio aquilone ha una densità riscontrabile in null’altro. Particolare tracciato nel cielo, imbrunisce le zolle e conversa con le nuvole. Si frantuma in miriadi di materici pensieri che si adagiano in contesti funambolici e formulano spazi nuovi in spazi vissuti. Diviene centro pulsante di un momento di nettezza oltre la quiete talora turbolenta del terreno calpestato.
Segue suoi tracciati, attinge a nuove traiettorie. Respira il vento e lo detiene fino a diventare alito di vento. Tempo minimo e sfuggente.
Creazione di parole mute ritratte nella mutevolezza di un privatissimo spazio cadenzato da una musicalità che adombra le sfrenate corse di note su spartiti già scritti.
La manopola preme e la fune sfugge via, distante dal suo centro. Alla ricerca di nuovi centri e nuove mete alle quali affezionarsi con la verbosità di un segno. Nella vaghezza del pensiero che pulsa nei silenzi.
Un aquilone. Uno tra milioni. Un rombo di carta velina e quattro legnetti fragili.
Un aquilone. Uno e ancora un altro. Infinite realtà dissimili eppure coincidenti nell’ambizione di distanziarsi dai cosa, dai chi e dai come, trattenendo la roccia semimobile dell’essere in continuo viaggio. Un’illusione di fuga, un disegno nuovo, una prospettiva di traslazione per desiderare di andare dove senza uscire mai.
La fune di un bambino immerso nel gioco visionario decide una traiettoria.
Il bambino adulto darà una duplice significazione al suo aquilone.
La fune si trasforma senza alcuna malia in una catena possente, energica.
Il velo di carta segna nel tempo il suo passaggio e si lascia avvolgere dal suo vento lungo una qualunque Route 66.

Carmen De Stasio

• Il significante e il semivalore di femina

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da jan saudek il doppio Henia-Enrichetta 
nell'elaborazione grafica di v.s.gaudio


La materialità del significante

La materialità del significante, che è sempre singolare al punto che, come dice Lacan, non può “supportare né sopportare la partizione “[i], ha l’unità per il fatto di essere unica del corpo, dell’esserci, di Henia e di Enrichetta, che essendo per sua natura simbolo di un’assenza, al pari degli altri corpi, che siano(stati) o non siano(stati) in quel posto della Galizia, dovunque vada a far da significante ha la materialità somatica di Henia quantunque in Italia la si sia chiamata Enrichetta.
Come Baudelaire che ha tradotto Poe, traducendo con “la lettre volée” il suo titolo the purloined letter[ii], così Landau ha tradito Gombrowicz rinominando “Enrichetta” la sua “Henia”, o Heniutka, Heniusia, Henieczka, così come la presenta il padre Hipo a Gombrowicz e a Fryderyk; lì, “la lettera deviata, quella il cui tragitto è stato prolungato(è alla lettera il termine inglese)”[iii], qui, il nome in cui viene messa da parte la lettera iniziale, che è specchio della lettera iniziale del padre: ci si trova, così, in questa sottrazione prolungata, confermati nell’assolutezza anonima e materiale del significante che Enrichetta è, che si prolunga come nome avendo perso la H, sprigionando al suo apparirci –nella traduzione italiana- la sua Heimlichkeit, la materialità significante del suo semivalore, il semivalore di femina[iv].
Se il numero essenziale di Henia  è il 6, che è appunto il numero che sa di “femina” non solo perché fa capo al trittico della cabala napoletana 6-16-29, incui rappresenta –manco a dirlo- le “muliebria”, il numero essenziale di Enrichetta è il 4 che – come il numero tarocco di Henia che è il 15 – dispone della sensualità assoluta di Plutone: il “Diavolo” –che indica l’episodio sessuale – che è la carta-numero di Henia e “Plutone” –il dio dell’inferno – che è l’eccesso della sensualità, che è la carta-numero di Enrichetta[v].
La materialità del significante, nonostante il traduttore abbia prolungato la sensualità onomastica del personaggio, non permette la partizione: la lettera H, una lettera, che se nella traduzione italiana scompare, e le lettere con cui Fryderyk comunica con Gombrowicz: la prima, se è Enrichetta che vediamo, manca al suo posto, ma mancando al suo posto non può che apportare un cambiamento nel simbolico, perché il corpo c’è sempre, e in ogni caso è al suo posto, Henia o Enrichetta lo porta incollato ai propri piedi, senza conoscere nulla o nessuno che lo possa esiliare; le lettere – a cui non si deve mai rispondere né fare riferimento – che non hanno l’unità significante della lettera, sia nel senso di elemento tipografico, di epistola o di quel che costituisce il letterato, a differenza della lettera –che se c’è in un libro[originale e traduzione spagnola] manca nell’altro[traduzione italiana]- stanno nel  libro, si intende nel romanzo, in qualunque nazione esso si trovi, perché –come il corpo del personaggio che per quanto gli si possa cambiare il nome sarà sempre nella piccola Polonia del ’43 – non hanno la singolarità, l’unicità, della materialità del significante.
La lettera H è quella della Heimlichkeit, è la lettera dell’assoluta nullibiété, questa particolare proprietà che è come un significante che, essendo unità per il fatto di essere unico, mancando al suo posto, non fa che realizzare la sua natura di simbolo di un’assenza, tanto che alla lettera non si può dire che essa manchi nel nome ma che sia stata deviata all’interno del nome, non messa da parte, dunque, ma messa dentro, in modo che non potendoci essere in italiano se fosse stato tradotto il nome effettivo di Henia(=Ennia) né all’inizio che dentro, è come se giacesse, in attesa che al suo apparire Enrichetta induca il lettore a farsi destinatario della lettera, ritrovando l’oggetto fondamentale perduto, l’erotismo polacco del semivalore.
Il semivalore di Enrichetta – in quanto lettori dell’edizione italiana – non ci fece connotare questa sua “nullibiété” come “fichetta”, prefigurando per i nomi gergali di “muliebria” il nome proprio “Enrichetta”? Dovendo tradurre Henia con “Ennia”, la lettera giacente “H” sarebbe dovuta ritornare al mittente, spostandone il significante noi lettori italiani siamo caduti in possesso della lettera, e il suo senso ci possiede.




[i]Jacques Lacan, Il seminario su “Laletterarubata”, in: Idem, La cosa freudiana, Einaudi, Torino 1972: pag.31.
[ii] Cfr. Ibidem: pag. 37.
[iii]Ivi: pagg. 37-38.
[iv]“Ne ho anche parlato nel mio Diario. Per esempio in un passaggio sul  Retiro de Buenos Aires(1955):La giovinezza m’era apparsa come il valore più alto della vita…Però questo valore ha una particolarità, inventata senza alcun dubbio dal diavolo: in quanto giovinezza , il suo valore non arriva al livello di alcun valore. Queste ultime parole, non arriva al livello di nessun valore, spiegano come mai io non sia finito in uno qualsiasi dei vari esistenzialismi. L’esistenzialismo si sforza di reinventare il valore, mentre per me il semivalore, l’insufficiente, il sottosviluppatosono più vicini all’uomo di un qualsiasi valore. Credo che la formula secondo cui  l’uomo vuol essere Dio esprima bene le nostalgie dell’esistenzialismo, in tanto che io a questa formula  ne oppongo un’altra,pazzescamente immensa. L’uomo vuole essere giovane. A parer mio, le età dell’uomo servono da strumento a questa dialettica tra  il finito e l’incompiuto, tra il valore e il semivalore.”(Witold Gombrowicz , Prefazione a Pornografia, 1960): potremmo dare un nome latino a questo “semivalore di femina”, il feminae semipondus, che in quanto tale ha tutta la pregnanza del simulacro della giovinezza che Heniutka è. E a denominarlo anche con la variante “pondusculum”(ovvero: “feminaepondusculum”), questo “piccolo peso”, questa misura leggera del peso e del valore, questa gravità non raggiunta di “femina”, proietterebbe o, meglio, porrebbe o innalzerebbe questa “apparecchiatura” o “rappresentazione” del “dietro”, come se dal “pono” di “posare” e “erigere” ci si “acquetasse” fino al “pone” dell’avverbio “dietro”, “di dietro”: quello che lampeggia nel semivalore di Heniutka è questa “posa” alta, “eretta”, del “di dietro”, questo “apparecchio” o “machina” che accheta, fa posare, “sedare” e di là conduce in disparte, “seducit”, ovvero “separa”, “divide”, “distingue”, cioè opera con lo schema verbale della 1a struttura schizomorfa e diairetica(che, nel testo, abbiamo già visto funzionare), che è sempre “seducit”, perché questo “feminae pondusculum” , che conduce la “Quadriga di Belenos”, questo fa, tira in disparte, separa, seduce, seducit.D’altronde, il penetrare o l’immobilità del fantasma irreprimibile, per posarsi e restare attaccato, sta, rimane fisso, sta fermo, si trattiene, sedet. Non per niente, “Pornografia” è in traduzione spagnola “La seducción”.
[v] Se si va dentro a questa storia dei numeri, Enrichetta che è 166(=1+6+6=13=1+3=4) e Alberto che ,essendo Waclaw , nell’edizione originale, è 66(=6+6=12), il numero che manca al fidanzato è come la lettera dentro che, spostando il significante,determina i soggetti nei loro atti, nel loro destino, nei loro rifiuti, nei loro accecamenti, nella loro sorte: questo “1” in più di Enrichetta è l’arma che determina la non corrispondenza con Waclaw; d’altro lato, la ripetizione del 6(che è il numero di Henia) in Waclaw(66) è più che uno spostamento del significante, è un raddoppiamento, che, se in uno, raddoppia l’infatuazione, nell’altra ne ridireziona il senso. Questo raddoppiamento vacuo dell’attante – una sorta di narcisismo primario ridiretto – da parte del fidanzato ufficiale avviene anche col nome Alberto che egli reca nell’edizione italiana: è un numero 13(4) come Enrichetta, tra orgoglio e irresoluzione genetica fino al suicidio insito nella carta numero 13, che è La Morte, per una fanciullache,non ci crederete, è un personaggio-attante della carta 76, da cui si origina il 13(4) di Alberto[A 1x7= 7 L3x6=18 B2x5= 10 E5x4= 20 R2x3=  6 T4x2=  8 O7x1=  7 che fa 76=7+6=13(4)].



· feminae semipondus, 7 - continua ·
( da: v.s.gaudio, feminae semipondus. 
la semidissertazione su "pornografia" 
di witold gombrowicz© 2007

$Leggi un altro saggio di V.S.Gaudio 
su “Pornografia” di Gombrowiczin:
& Alessandro Gaudio
Il limite di Schönberg 
Prova d’Autore Catania 2013
□ edizione numerata 
in distribuzione da novembre □

Timberland ░ Into the Trees

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The Poet  Woodcutter


linea che qui lascia il grigio
uno solo alla volta
il bosco la sera si tocca
e si somigliano l’aria, l’acqua
il freddo i sassi
ce trou qui laisse voir
les jointures
o il ventre il filo sottile
o ciò che ci manca
oppure la bocca

[F v.s.gaudio 
la stimmung del 17 aprile 1984 
con jean pierre faye 
in: idem, stimmung, collezioni di uh 1984 ]

Irina e il musicologo che spaccava la legna

Non si riusciva veramente a capire perché mai fosse andata in campagna una creatura metropolitana come Irina. Quella donna che da tanto tempo, un anno dopo l’altro, andava tutte le sere a un concerto o all’Opera o a teatro aveva deciso dalla sera alla mattina di prendere in affitto una cascina a un solo piano che tra l’altro per metà era adibita a porcile, come Paul e io fummo costretti a constatare con raccapriccio, e nella quale non soltanto ci pioveva dentro, ma anche, essendo sprovvista di cantina, le macchie di umidità arrivavano al soffitto. E loro, Irina e il suo musicologo, che per anni aveva scritto regolarmente in diversi giornali e riviste viennesi, con addosso dei vestiti lisi e sbrindellati si presentavano ad un tratto davanti ai nostri occhi appoggiati a una stufa americana di ghisa mentre, mangiando del cosiddetto pane casareccio cotto da loro nel forno, mentre io mi tappavo il naso perché il puzzo di porcile mi mozzava il respiro, magnificavano la campagna e stramaledivano la città . Il musicologo aveva smesso di scrivere saggi su Webern e Berg, su Hauer e Stockhausen, e invece spaccava la legna davanti alla finestra o toglieva il letame dal cesso otturato. E lei, Irina, non parlava più della Sesta o della Settima, ma ormai soltanto della carne affumicata che aveva appeso con le sue stesse mani sotto la cappa del camino, non più di Klemperer e della Schwarzkopf, ma del trattore del suo vicino di casa che si svegliava col cinguettio degli uccelli alle cinque del mattino.
[FThomas BernhardIl nipote di Wittgenstein © 1982 trad. it. Adelphi edizioni, Milano 1989]

♫ Chlöe vs Aner Clute a Catanzaro

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Chlöe , e allora tu che trotti in campagna con una coppia di cavalli bai?

Se è tutto così colorato Chlöe e non ho freddo allora non sono in quella notte di Catanzaro e com’è possibile dunque che abbia un cuore di carta non eri tu che come Aner Clute al cancello mi rifiutavi il bacio di saluto dicendo che bisognava prima fidanzarci e io, ma dai, come facciamo a fidanzarci in questa notte fredda a Catanzaro, nemmeno in Sila fa così freddo questa notte davanti al distretto militare e tu solo con una distaccata stretta di mano e senza una coperta non mi davi nemmeno la buona notte certo che avrei voluto accompagnarti a casa a Bolzano dalla pista di pattinaggio o dalla chiesa e tu avresti detto ma che stupido che sei, mica sono Carolina Kostner, certo che non lo eri, come Aner non andavi a trottare con i cavalli bai, quella robusta coppia di cavalli bai, con Atherton che s’era infilato furtivo per la finestra e tu non mi davi nemmeno un bacio sulla porta, i poeti, dicevi, non amano andare in giro per la campagna, io pensavo che tu ti riferissi a Thomas Bernhard che, lo si sa, se non stava in città, fosse pure Vienna,quella che riteneva una città insopportabile, e l’avrei voluto vedere a Catanzaro in questa notte di freddo e Atherton che ti porta a cavalcare, Chlöe domani mattina ci fidanziamo, così vedrai che cuore che ho anche perché non ho messo dei soldi nella fabbrica di scatolette per avere il posto di ragioniere, manco a Cirò, che si sa di buono ha il vino e insomma ho capito allora nella notte fredda di Catanzaro che ero un povero scemo che avevo il cuore di carta e che tu Chlöe te la spassi con ogni Atherton che ama farti trottare in campagna  


(da: Se fosse l’antologia di quella notte a Catanzaro, 2)
Chlöe Howl - Paper Heart     


... e tu avresti detto ma che stupido che sei,
mica sono Carolina Kostner

Ignazio Apolloni  "Horcynus Orca", quell'omerico impasto di idiomi?

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2Sarei tentato di fare una filippica, dire che la concezione che Stefano D’Arrigo aveva del mondo e delle cose che lo sottendono è il portato della cupezza, dell’aspirazione alla morte come liberazione dell’anima di cui è intrisa la cultura isolana. La dominazione delle coscienze – soggiogate dalle innumerevoli dominazioni straniere non ultima l’Inquisizione – ha assuefatto i siciliani al condizionamento delle idee e all’attesa della fine. Qui la libertà è intesa come privilegio dei pochi, l’obbedienza al potente come un dovere: e potente è Cristo quanto lo è stato Maometto. Le idee liberali, i principi enunciati dagli illuministi e fatti propri dalla rivoluzione francese, il pensiero cogente cartesiano non hanno ancora attecchito né sembra che li abbia tenuti presenti l’autore della mortifera previsione di una fine prossima assegnata al povero Ndrja. Una forma di catalessi dunque anticipata già nel fiore degli anni al marinaio-nocchiero di una nave non sua e al cui destino non potrà sottrarsi; una calata agli inferi né desiderata né voluta; effetto di una classicità greca portata ad esaltare il mito dell’eroismo fino al sacrificio di sé, all’annichilirsi di qualsiasi tensione emotiva suscettibile di trasformarsi in vita creativa. È dunque la rovina, il crollo degli imperi, l’archeologia che recupera le testimonianze della grandezza e non la loro nascita e floridezza a sostanziare il portato narrativo di Stefano D’Arrigo: e non è un caso se viene paragonata la sua opera all’epopea omerica mentre erronea appare l’assimilazione che si fa del suo poema con quello dantesco per la difformità del percorso. Non mira infatti certo alla beatificazione paradisiaca l’Horcynus; tutto è buio, tetro, persino fuligginoso (la fuliggine percepita come pericolo immanente nei caveau degli orrori predisposti nei circhi o nei luna park per fare provare scosse da incubi a chi non riesca a provarli di notte ed eufemisticamente ne sente la mancanza per realizzarsi). Né mancano note da campane suonate a morto tipiche della liturgia ecclesiale.
Si può parlare pertanto di monumento alla cristianità senza tema di sbagliare? Si può individuare nella possibile redenzione dal peccato, detto originario, l’opera di distruzione della gioia di vivere del D’Arrigo quale atto supremo di restitutio a chi ci avrebbe donato la vita? O non piuttosto è stata l’enfasi linguistica, l’impasto di idiomi tuttora presenti nel subconscio e nel cervelletto dei siciliani quale lascito delle dominazioni subite a fare da volano, a condurre verso l’inevitabile fine del viaggio quale anticipazione di un mondo migliore?
Non so se George Steiner abbia le medesime pulsioni di D’Arrigo ma non mi sorprenderei nel sapere che solo ora, nell’età avanzata e prossima alla fine, si sia convinto della grandezza, anzi la suprema, nel panorama letterario mondiale. Sono però portato a ritenere che la sua odierna adesione totale a quel poema gli sia nata dall’immersione totale e globale nella visione medievale del mondo che Dante ne aveva. Se avesse approfondito la rappresentazione ciclica del tempo espressa da Joyce nell’Ulisse non dubito che le sue certezze sarebbero state altre.
Ignazio Apolloni



▼ Buona notte , Zucchero Candito !

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Ohlàlà mon Su   là mon Sucre
Mon Suc monnaisynx Tutival
De Nectar Bélzeboubouche
Le Tout indivisible la  Touche
Mon sucre glacé L’Elutoutencul
L’El exutéral le lieu urètral
Le devenir de la chose becbouche
La nuit  le long le minuit le Mielnuit?

▒ Il poeta e la (im)bandita ben data

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(IM)bandita Ben data
Cate è un po’ dentro il paradigma della dea bendata
per come la vede Edgar Lee Masters, una donna bellissima
che impugna una spada e brandendo la spada, un po’ come
se fosse il fallo,  colpisce a volte un ragazzo, ancora un lavoratore,
o un uomo in fuga, un poeta miope più plutonico che lunatico,
e nella mano destra regge una bilancia e sulla bilancia ci sono
monete di qua e falli di là di quelli che hanno schivato i colpi di spada,
e un uomo che passa, forse un prete che legge un cartiglio:
“Lei non rispetta nessuno”, insomma dà colpi a caso per non dire
a cazzo e io, aggiunge il poeta, non ho un berretto rosso, né potrò
mai balzare al tuo fianco e, Dio ne è testimone, non ti strapperei
via mai la benda ma vorrei tanto alzarti la sottana cosicché
la moltitudine possa vedere perché tu porti la benda e colpisci
così a cazzo, mai una volta che c’è la luna piena e la terra scintilli,
mai dentro la mezzanotte e non c’è anima in giro e noi a darci dentro,
mai che tu prenda la mira e per come brandisci il coltello in cucina,
via, e zac, attraversi il campo e passi al mio meridiano e prima di
prendermi al cuore mi dici : “Prima sospettavo qualcosa, e poi un giorno
ho capito e uscendo dalla porta sul retro a un tratto è te che mi son vista
davanti, e tutto quello che ho potuto dire: “Certo che come prendi
la mira tu, che sei un poeta, e mi spari al cuore, che so?, nemmeno
uno dei poetini della parola innamorata, ed è per questo che allora
che aspetti a sollevarmi la sottana, non sei tu il poeta che va matto
per le bionde? Io sono Cate quella dal vello d’oro e amo tanto lasciare
la porta semiaperta e appoggiarmi allo stipite e il corpo tenerlo 
dentro la stanza semicurvo per il poeta che passa al mio meridiano 
e mi alza le gonne e per la porta aperta  distogliendo sempre 
la curiosità importuna avrà finalmente la fortuna di non farsi
sorprendere mentre fotte Cate quella che sparava colpi a caso”.

Dancing I need a hero




Francesco Merlo□Violetta□Vuesse Gaudio□Emmanuele□Margherita□Silvia ● La Cretinocrazia e uno Stupido Pot

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LA CRETINOCRAZIA

by Francesco Merlo

28 ottobre 2011 la Repubblica


Carlo Maria Cipolla
a pagina 96 del ForseQueneau, ed.cit.
  (Il Venerdì)   Il vero cretino è intelligente. Se è di sinistra, non sente il bisogno di leggere Gramsci perché gli basta vedere Santoro o Fazio, se è di destra quando gli prendono la multa reagisce come Berlusconi: . E’ l’intelligenza l’arma micidiale del cretino che non è mai troppo ignorante ed è ben vestito, proprio come ai tempi di Flaubert  che oggi aggiornerebbe il dizionario con , , , <è andato in paradiso il grande  Steve Jobs che ci ha insegnato a vivere>. E il cretino intelligente ovviamente conosce l’inglese, pronunzia ’giunior’ il latino junior, dice network, family, cool,  friendly, e il secchione sfigato è nerd, il fanatico del computer è geek. Se è raffinato intercala pure rendez-vous, maquillage, savoir-faire, maître. E, quando può GeistWeltanshaung,  e per lui la delizia delle disgrazie altrui è sempre Schadenfreude. Anche se l’intercalare più intelligentemente cretino rimane of course inglese (of course per esempio).
   Si spaventava, Carlo Cipolla, che trattando della stupidità degli altri potesse meritarsi il titolo di stupido.  Non voleva finire come quel matto che  andando contro senso in autostrada pensava che tutti gli altri automobilisti fossero matti. Il suo saggio sulla stupidità si chiude con una raffica di grafici e suddivisoni in sottospecie e quadranti e frazioni che sistematizzano il tema della contaminazione ben oltre la stupidità dell’intelligente sino al vero problema dell’umanità, all’intelligenza dello stupido, alla secondo la definizione che ne diede Robert Musil nel terribile 1936: .  Insomma, se non fosse anche intelligente, il cretino non sarebbe cretino.
  Il cretino-cretino infatti non esiste se non nella patologia, nell’ insufficienza tiroidea, e va curato come tutti i malati, protetto e abbracciato come un fratello sfortunato, cretino in senso filologico, dall’antico provenzale crétin, cristiano, povero cristo e non, come prescrive Carlo Cipolla . E’ come il povero che vive in miseria perché non ha. Altra cosa è il miserabile, che è ricco ma sceglie di vivere nell’avvilimento del povero di spirito. Sceglie, appunto. E’ responsabile di sé. Cretino per colpa. E magari per mestiere.
   Il saggio di Cipolla è preceduto da un piccolo capolavoro sul ruolo del pepe e delle spezie nella storia che della teoria della stupidita è lo svolgimento pratico. Cipolla dimostra – senza dirlo – che l’ Accademia degli storici e degli economisti storiografi, alla quale con molti titoli apparteneva, è un’accademia di stupidi, ovverossia di cretini intelligenti. Sostituisce infatti a tutti i loro studi, alla sapienza delle cattedre, alle teorie sugli Stati e sulle religioni, agli istogrammi sul progresso, insomma a tutto lo sforzo conoscitivo dei professori stupidissimamente intelligentissimi, i bisogni primordiali: la tavola, le spezie, il vino. L’Occidente, per esempio, decadde perché senza l’afrodisiaco pepe i maschi non si eccitavano abbastanza tenendo dunque bassa la natalità e alta la mortalità. L’impero romano crollò .  E il vescovo di Brema inventò l’imperialismo .  E  i vichinghi stavano sempre in giro a conquistare il mondo .   E Pietro l’eremita ideò la Prima Crociata e sconfisse i pepatissimi mussulmani perché  .
     E’ ovvio che Cipolla, il quale aveva il nome adatto a una storiografia di indigestioni, condimenti e lacrime, temesse la reazione dei cretini intelligenti: . Conosceva il rischio di frasi come questa: . Per pudore e per timore scrisse dunque per pochi amici e in quell’inglese che – lo abbiamo visto -  in Italia è ora la lingua del cretino intelligente. Cipolla lo sapeva già?
     Di sicuro  Cipolla è il profeta del cretino di oggi e della sua‘prevalenza’ per dirla con Fruttero e Lucentini, del cretino che usa concetti, ha facoltà di intendere e pratica la lettura, sia pure solo in bagno (e la sua cultura ne trattiene gli odori). E spesso il cretino intelligente dice di non avere troppo tempo per i libri e dunque .
    “Cretino cognitivo” è  la definizione migliore. Credevo che l’avesse usata Sciascia, sicuramente l’ha usata Domenico Starnone ma ne rivendica il copyright, probabilmente a ragione,  Daniela Maddalena che nel 1997 scrisse  ‘Il Cretino cognitivo’ (Carabà Edizioni).
    Ed è un tema comico ma anche tragico come aveva ben capito Musil negli anni del consenso di massa ad Hitler. Cipolla dedica pagine lucidissime sia al potere della stupidità sia alla stupidità del potere. Al primo si inscrive per esempio il mostro norvegese,  Anders Behring Breivik, l’ autore della duplice strage di Oslo e di Utoya in cui morirono 76 persone. Breevik  si è rivelato alla fine come uno spaventoso, fantasmagorico, tragico, colossale cretino che – attenzione – leggeva Kafka e Orwell e Machiavelli e la Bibbia. E le sue ossessioni erano le tipiche banalità del cretino cognitivo di destra, quello che e . Del resto è un cretino anche quel black bloc incappucciato che ha scritto con lo spray su una camionetta della polizia la parola loser (perdente), tipica del cretino cognitivo americano.
   Se poi passiamo alla stupidità del potere il luogo ideale è l’Italia, innanzitutto quella dei grandi  investigatori. Hanno scambiato le patate per il dna di Amanda, hanno accusato dell’omicidio di Yara un povero  marocchino solo perché lo avevano sentito invocare il perdono di Allah, hanno bruciato ad Avetrana una strega al giorno, e via elencando. Tutto questo nel paese che produce un’enorme quantità di (pessima) letteratura poliziesca: si calcola che su ogni 25 italiani c’è un cretino cognitivo che scrive gialli.
   Nella politica si va dalla casa a sua insaputa di Scajola, a Brunetta ministro fantuttone, alla Gelmini che ha dovuto ritirare ben mille quiz dagli esami per preside …, sino al voto della maggioranza dei deputati  per confermare  che davvero Rubi era stata scambiata da Berlusconi per la nipote di Mubarak. Ecco: neppure Cipolla era arrivato a immaginare l’ Italia come la prima Cretinocrazia Cognitiva della storia.
  1. Violetta
    Caro Merlo, veramente non si puo’ attribuire a nessun paese in speciale quel primo posto sul podio di Cretinolandia. L’italia n’è una cretinocrazia come il resto dei paesi presi in giro dalla mascalzonecrazia dei Lehman Brothers, Wall Street, agenzie USA di qualificazione, FMI e Banca Mondiale. Se guardo la mappamundi odierna non ci trovo piu’ salvezza per noi umani da questa malattia congenita e precoce della nostra specie. Ad esempio, Lei ed io. Ne abbiamo qualche sintomo condiviso, a giudicare per quello che scriviamo e commentiamo ogni tanto. Quella persistenza nell’approfondire nelle radici della crertinagine altrui sia nelle classifiche del vocabolario, sia nelle critiche feroci che condividiamo dalla cretin’idea di sentircene un po’ al di lá o al di sopra di quella roba forse per dimenticare la condivisione umana, europea e conterranea. In realtà siamo tutti fatti dalla stessa sostanza ed abbiamo la stessa inclinazione verso il merito cretinificante. Sicuramente i cretini illustri ne pensano di essere i Cipolla pianetari, mentre i cretini da poco neppure ce ne accorgiamo. Forse piu’ si osserva e critica quella condizione, piu’ vicini ce ne sia anzi covando l’illusione di esserne un po’ staccati. Piu’ ci s’indegna quella “virtù”, forse piu’ contaminati ne siamo. Solo un cretino DOC riesce a indignarsi per quello che non puo’ eliminare né cambiare né dimenticare, perchè anche lui appartiene allo stesso brodo.
    Sembra che la cretinagine universale sia l’oceano immenso in cui si vive, si nuota e si respira come gocce della stessa materia cretiniforme. Nessuno se ne salva!
    Davanti a quell’impossibilità metafisica per abbandonare quello stato contagioso, forse sia meglio essere meno scrupolosi, piu’ comprensivi, pazienti e sereni. Imparare a ridere di noi stessi piuttostto che degli altri ed a perdonare in essi quello che loro vedono anche in noi, benchè non ne dicano mai nulla. Purtroppo o per fortuna pedagogica della natura umana, tutti siamo specchi reciproci. Anche non sia mica facile riconoscerlo. Quindi nel regno dei cieli “gli ultimi saranno i primi”. Non per premiarci l’umiltà né per castigare la superba e vanitosa prepotenza, ma per pura ugluaglianza sostanziale. Ed inevitabile. grazie a Dio!
  2. vuesse gaudio
    IO SONO UNO STUPIDO POT, un “cretino non cognitivo e che non deve conoscere”, secondo la Procura della Repubblica competente per il territorio dove ero “insignificante”, anche se me lo hanno imbucato(ed è significante) a Firenze

    Mia nonna, quella dello Zen, la maestra dell’arte dell’irrigazione, mi disse un giorno nel bel mezzo della mia pubertà a metà anni sessanta:
    “Enzu’, due sono gli stupidi più pericolosi: uno è l’”ombrone” e l’altro è “‘u bbresh”.Lo stupido è il tipo di persona più pericolosa che esista, ma lo stupido bbresh è più pericoloso du lupë: lass’u lupë eppïgl’u bbresh, non badare al lupo stai attento alllu bbresh!”
    Dopo sette lustri almeno, le leggi fondamentali della stupidità di Carlo Maria Cipolla le vidi catalogate tra le Scienze e teorie comiche, effimere, parodie di scienze all’interno dell’Enciclopedia delle Scienze Anomale, il “ForseQueneau” della Zanichelli(1999).
    Forse non avrei badato a questa corrispondenza, se non ci fosse stato un episodio increscioso e soprattutto stupido, ancorché non fosse del cretino, se vogliamo: chi scrive era citato all’interno della stessa enciclopedia come autore di una determinata “scienza” anomala, di cui non si dice, per evitare ulteriori considerazioni cretine se non sceme sulla materia, basta dire che tale “scienza anomala” era, come quella di Carlo M.Cipolla, tra quelle "Comiche" e/o "Effimere".
    Il fatto è che al mio nome, che è V.S.Gaudio, aggiunsero il nome Alessandro, che, guarda te, il caso?, è il nome di mio figlio. Io segnalai educatamente e in modo scherzoso l’errore di attribuzione alla casa editrice che rispose con cortesia dicendo che alla prossima ristampa avrebbero sicuramente ovviato all’errore [poi non l’hanno fatto, né alla prima né alla seconda ristampa e,penso, né mai,ma di questo si potrà parlare un’altra volta].
    Punto e basta? No. Uno dei compilatori dell’Enciclopedia mi inviò una lettera, scrivendo sulla busta il nome triplo["Alessandro V.S.Gaudio"] che mi aveva attribuito nell’Enciclopedia facendolo precedere da: “All’Insignificante”… che, lo sapete, è nella nuvola analogica che contiene: baggiano, tondo, balordo, mammalucco, mestolone, minchione, coglione, babbeo, bischero, rintontito, testa vuota, quadra, testa d’asino, di cavolo, di rapa, zuccone.
    Il bello è che, è risaputo, io mi ritengo un autentico fesso costituzionale, ma di qua ad essere tacciato, insieme a mio figlio che non c’entrava nel titolo apposto di deficienza e nullità, ce ne vuole, anche se è fesso, uno va a finire che s’incazza…
    Quando s’incazza un fesso, e si deve incazzare, non si tiene conto di una cosa importante: la stupidità è più veloce nel riprodursi della più alta velocità di riproduzione conosciuta storicamente nell’uomo, che è di oltre il 3% all’anno. Che vuol dire?
    E’ genetico. La velocità radiale di avanzamento di una popolazione, che si accresce e migra, dipende dalla velocità di crescita e dalla velocità di migrazione.
    La velocità radiale di avanzamento della stupidità di una popolazione è inversamente proporzionale alla regola di base.
    Insomma, Cavalli Sforza dice quando si fa così 1 chilometro all’anno si avanza nell’occupazione del territorio; la stupidità,invece, dopo un anno ha 2 chilometri, 1 dov’era prima e 1 dov’è adesso. L’anno dopo la popolazione avanza di 1 chilometro, mentre la stupidità fa 4 chilometri…
    Insomma, se sei nell’habitat in cui, tu, fesso autentico e costituzionale, proveniente da un’autentica famiglia di fessi, sei tanto stupido da offenderti, e non solo per la lettera del compilatore ma anche per via del fatto che dopo due ristampe non ti avevano fatto l’errata corrige, come è uso fare in quella casa editrice, e adire alle vie legali in un circondario pretorile in cui non si sa se questa è intelligenza pragmatica o il corollario di mia nonna sui bbresh, quando ti citano come POT e non ti specificano, né prima né dopo, nemmeno a che livello del procedimento, secondo la procedura penale, si sia e, quindi, ti fanno consegnare un fax, quasi illeggibile tanto è scuro, dai CC in cui c’è, sotto l’intestazione: ”Procura della Repubblica….”, in mezzo: “Visto:•••”(tre pallini che vogliono dire:niente, non c’è niente!) si dispone la citazione, ecc. di V.S. Gaudio, POT! E tu al momento non capisci “Pot”, cos’è “Pot”? Dio. Ma allora sono stupido davvero…
    Ecco: uno stupido POT è stupido due volte, anche tre: da insignificante diventa altamente significante, diventa STUPIDO POT! O, forse, è più insignificante se “Visto: stupido pot”? Ed è così che “Visto: stupido pot” può essere insignito del titolo di “cretino non cognitivo e che non deve conoscere”?
    P.S.Mi conforta però il fatto che non leggo quella letteratura poliziesca, non vado a scuola , né, grazie a me, non ho con essa alcun contatto, né possiedo case a mia insaputa, anzi, scusatemi, non ne possiedo perché me le hanno sottratte a mia insaputa, ma non è detto che io lo sappia…
  3. Post author
    La velocità radiale di avanzamento di una popolazione, che si accresce e migra, dipende dalla velocità di crescita e dalla velocità di migrazione.
    La velocità radiale di avanzamento della stupidità di una popolazione è inversamente proporzionale alla regola di base.
    Insomma, Cavalli Sforza dice quando si fa così 1 chilometro all’anno si avanza nell’occupazione del territorio; la stupidità,invece, dopo un anno ha 2 chilometri, 1 dov’era prima e 1 dov’è adesso. L’anno dopo la popolazione avanza di 1 chilometro, mentre la stupidità fa 4 chilometri…
    Magnifico. Grazie.
  4. emmanuele
    Non posso fare a meno di sentirmi anche io un cretino cognitivo in questo caso, rispecchiandomi in gran parte del testo, dato che proprio in questi giorni sto abusando di alcuni dei termini sopraelencati. Chissà, forse sarà per sentirmi più “cool”? Tra le pieghe delle varie sfumature di cretinerie, c’è anche il cretino di sinistra “political correct” (tanto per continuare con la xenofilia), che si comporta in maniera eccessivamente bonaria verso alcune situazioni (in cui, ahimé, a volte mi sorprendo ad esserlo), o il cretino di destra cinico, per cui, in fondo in fondo, nonostante tutto, anche Breevik ha delle idee condivisibili.
  5. margherita
    La grande scuola dell’esamificio e le borse consegnate da cretini non conosciuti a cretini non cognitivi conosciuti •
    A proposito della cretinocrazia scolastica, non posso esimermi dal segnalare una recente iniziativa di una università del sud, nota come “esamificio” [non si sa quanti appelli venivano fatti negli ultimi anni con una commissione, con alcuni elementi in servizio presso scuole secondarie che si trovavano a volte a fare esami a ex propri studenti di scuola media, sempre a disposizione, e gratis, per lo studente bisognoso, bastava richiedere e, ta-ta, un bell’appello e ta-ta, commissari convocati di qua e di là, a spese proprie, ammesso che conoscessero la materia del corso di laurea di cui al titolare(ma si sa, la terra gira; il sapere è come il pesce, è scemo ed è fisso)]: l’amministratore assoluto, che è cognitivo?, ha da distribuire una settantina di borse postdottorato, e tira giù un bando che porta l’età dei partecipanti a 40 anni, e si partecipa anche senza aver conseguito il dottorato, basta che devi andare all’estero per sei mesi e devi essere tu partecipante a trovare il posto dove andare a tue spese e con le tue clientele di emigrazione, è cognitivo pure questo, pazienza che l’hanno fatto a tempo scaduto e hanno premiato, cioè dato la borsa a studenti che, anni prima, erano stati esaminati da commissari di quelle commissioni dell’esamificio, a cui la borsa non l’hanno dato, perché non cognitivi o non conosciuti, ma il bello della cretinocrazia dell’esamificio assoluto è che il capo, cognitivo, ha posto dei selezionatori, non commissari, dando loro un numero, quindi dei c. che si suppone cognitivi e incappucciati…e il bello non è finito, c’erano dei partecipanti della sezione della giurisprudenza che, ti dicevi, saranno c. ma cognitivi e allora vedrai quanti ricorsi e esposti alla magistratura stessa, no, niente, c. erano e c. furono anche dopo ma non cognitivi. Il tutto viene diffuso grazie ai comunicati stampa che fa l’autore del decreto stesso: cioè emana, dice che c’è qualche lamentela, risponde che lui è fuori, segue le direttive di chi, la regione, offre le borse, e difatti , essendo non cognitivo, ha messo una giuria incappucciata, senza nome e senza legge, dei veri e propri c. cognitivi sconosciuti che conoscono i destinatari, i clienti, a cui riempire la borsa!
    Margherita
  6. silvia
    Pe rinformarvi che dopo la cretinocrazia è stato approfondito anche il tema della “puttana acculturata”, autrice carla festa, che riesce bene nel definire un’altra popolazione molto diffusa in questo paese. Se non altro questo particolare tipo di “cretini” affolla le anticamere delle case editrici e si è spinta con l’ultimo governo fin sugli scranni più alti di molti ministeri della repubblica.

♠ I fallimenti di Maurizio Milani e ♂ stipaperi di Vuesse Gaudio

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Fallimenti

Questa rubrica era nata per far innamorare una ragazza. A distanza di 5 anni lei non ha ceduto. Anzi, oggi sposa un altro (un mio collega con rubrica sul Foglio). Pensare che lei non leggeva il Foglio, quando ho iniziato a collaborarci le ho attaccato il vizio di leggerlo. Mai avrei pensato che si innamorasse di un’altra rubrica. Adesso la sposa. La rubrica viene sospesa mestamente. Pensare che ero innamorato come un cane. Comunque lei era già fidanzata. In 5 anni ha cambia- to 5 morosoni. Non è da escludere che il mio collega del Foglio sia lasciato dopo le nozze.
(Maurizio Milani sul Foglio di oggi)
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4 risposte a Fallimenti

  1. v.s.gaudio scrive:
    STIPAPERI!
    L’altro secolo ho smesso di scrivere poesie, anzi ho bruciato tutti i miei poemi. E pensare che avevo cominciato a scrivere poesie perché volevo che lei si innamorasse di me, e nonostante sia fuggita, appena lo ha saputo, con un acrobata del Circo Togni, io immaginavo sempre che, quando avrebbe smesso di ammirare le sue acrobazie, avrebbe finalmente ammirato le mie acrobazie sintagmatiche e paradigmatiche.

    E’ che più tardi, non tanto tardi, lei ha smesso di ammirarle quelle acrobazie ed è fuggita con uno scrittore di gialli che, nei ritagli di tempi, faceva il poliziotto fino a quando, poi, stanca di questa fuga, è fuggita con un magistrato di Castrovillari che scriveva sulle schedine del Totocalcio quando non emetteva sentenze di sfratto dopo aver applicato l’equo canone calcolato non sul costo base della locazione ma sulla cifra scritta dal locatore sul contratto falso. Adesso, che non scrivo più( da un bel pezzo, a pensarci bene) per “Topolino”, sto attento, c’è stata una fuga di notizie: sembra che lei stia per prepararsi a fuggire con Paperinik che, giacché non lo disegna più nessuno come all’inizio, si è stancato di Paperina…E pensare che lei, quando le dicevo che scrivevo per “Topolino”, diceva, anziché “Sticazzi”, “Che palle, stipaperi!”
  2. braccale scrive:
    mm è uno dei miei piccoli miti.
  3. pla8 scrive:
    sono indeciso: milani è peggio gaudio?
  4. anais scrive:
    19 maggio 2009
    Questa rubrica serviva per far tornare il mio grande amore. Oggi si è sposata con un altro. La rubrica non ha più ragione di esserci, domani cambiamo nome: da “Innamorato fisso” si chiamerà “Amore ti aspetto ancora 8 anni”. Gli argomenti trattati saranno sempre quelli: astronautica, furti di rame, bestiame valutazione. Alla fine non cambia niente. P.s. Per valutare il bestiame, bisogna fare un corso dall’associazione Allevatori di Parma. Dura soltanto un pomeriggio. Poi è un mestiere che uno impara facendolo. (di Maurizio Milani) dal suo blog
"Topolino" n.1339: è da questo numero che il  poeta
(l'urlo in copertina riguarda il suo avvento!) cominciò a scrivere
per il settimanale Disney , allora (luglio 1981) edito da Arnoldo Mondadori Editore

 Poliça non è l'angelo Stuart

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Un angelo Stuart






Lo Shummulo e il guerriero
Io non ero amato da chi abitava il mio paese
non certo perché dicevo tutto quello che pensavo
o perché prendevo a sassate quelli che mi offendevano,
fu così che divenni guerriero senza protestare
direttamente, senza nascondere o covare segreti
rancori e risentimenti, semplicemente mi misero
un altro nome e fu come quel ragazzo di Sparta
che nascose il lupo sotto il mantello e  si fece
divorare senza un lamento, come si fa a staccarsi
il lupo di dosso per combatterlo apertamente
là dove a mo’ di litote hanno l’aforisma o il postulato
del terrore che è più meno quel comandamento
che dice di lasciare il lupo e prendere l’arbrëshë,
è questo il coraggio, anche per la strada, o soprattutto
per la strada essendo degli indiani senza ruota, in
mezzo a polvere e urla di dolore, così imparai
un’altra lingua per via del dover essere un guerriero
che nel silenzio vede i colori dell’anima avvelenata,
intanto che il mio avo fu tenuto prigioniero e poi
la prigione fu abbattuta cosicché non restasse traccia
dell’infamia di quella razza e di quella gente che ogni
anno ingrassava così la grande troia, e io a dirmi
ci vuole coraggio e acqua per fare questo, e sangue
non solo quando l’estate svanisce, un po’ prima
quando è allora che riappare Dago e il guerriero
è questo giannizzero nero lungo la strada sabbiosa
dove l’acqua manca e ci sono gli scalzacani che
fanno finta di dormire un sonno senza sogni
lì sulla collina vicino al fiume o sotto
la pelle della mia mano con Poliça che si ferma
nella commozione di questi campi silenziosi
e canta in tutto questo spazio in cui la mia
identità è scomparsa e mio nonno tenuto
in vita fin quando servisse a dare un nuovo
nome al brigante del triangolo e del cerchio,
un padre amoroso non c’è stato a farmi un
gran buco nel cuore, fosse stato Dago che
da Venezia anch’egli fu messo in fuga
e senza ruota tanto che per gli albanesi stessi
si narra che il giannizzero fosse Pa-Rrotë
semplicemente un guerriero che quando arriva
la primavera non sussurra nel tenero prato
né ha conquistato lo spirito e, tramite lo
spirito, la pace né ha scivolato mai con la lanterna
a occhio di bue di porta in porta nella piazza,
né ha mai tremato la sua anima o ha stentato
a stare sui binari di una vita nuova,
la lingua cosa può dire che già non sappiamo,
e potrà mai raccontare che cosa si agitava
dentro di me, o è questo che canta Poliça
un alto e urgente proposito dell’ anima che
per la pulsione del suo oggetto a non la spinge
a imparare a memoria l’Enciclopedia Britannica
né a rubare le troie di Sibari e andare in guerra
dietro al suo guerriero ma a farmi lo shummulo
e se guardate bene in acqua non c’è un’anima
in giro  e la foresta è appena scomparsa e non mi è
caduta addosso la pioggia che scorre via
così la mia anima risponde al canto di Poliça
come l’ascolto e la riascolto dentro un cielo
d’acqua che non è estivo e i miei occhi vanno
oltre la pagina, la luce passa fa sotto di sé
qualsiasi cosa senza che ci siano alberi attorno
né un bicchiere sul tavolo, cavalieri in armi
e una giovane donna che si china allo shummulo
e non è l’angelo Stuart
by v.s.gaudio

POLIÇA  La Polphallangue allo Zenzero  OMV

V.S.Gaudio ░ Epistula amoris per Hannah alla finestra

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Hannah alla finestra sei senza mutande

Ti ricordi, quando ti ho vista la prima volta alla finestra, ti ho chiesto : “Senti, Pupa, per arrivare in stazione?” e tu mi hai guardato perplessa e, poi, dopo un attimo che a me è parso un’eternità, ti sei girata all’interno della stanza e non so a chi hai ripetuto la mia domanda ? E dopo un po’ di tempo, che a me è parso un’eternità, sei riapparsa così com’eri alla finestra e: “Vai diritto per  cinquanta passi, poi ne fai altri cento verso ovest, badando di non guardare dritto davanti a te ‘chè il sole sta tramontando, e, se ancora non senti e non vedi niente che  possa in qualche modo ricordarti una stazione, puoi ritenerti gabbato”. Ti ricordi quanto ho riso? E tu che mi guardavi tra l’irritato e il costernato, e l’indifferente, avevi disegnato in faccia: “Ma che stupido, sono sicuro che è un poeta, e di quelli che la sanno lunga per retorica ed estetica, non è certo un lirico di quelli che negli anni Settanta ancora catalogava nelle sue antologie quel tal critico  calabro di stanza a Milano”. Avessi avuto una macchina fotografica ti avrei reso irredenta e patagonica, tanto che Jean Baudrillard ci sarebbe rimasto di stucco, e mostrando la tua foto  a un mio amico poeta in quel di Torino avrebbe esclamato: “Dio, quando vedo questi tipi di donne alla finestra, sono sicuro che si chiamano tutti Hannah, altrimenti non potrebbero essere capovolte quando vogliono appurare che c’è corrispondenza tra la loro pulsione orale e la pulsione fallica del visionatore!” E, non avendo la macchina fotografica, ti conservai stretta come oggetto a , dentro la finestra dell’innamoramento di cui scrisse Roland Barthes, e in quella cornice il punctum è la linea orizzontale della tua maglietta e la barra orizzontale della finestra o forse la camicia che, così, mi dicevo, farò presto ad abbassarti i pantaloni e a accarezzarti la barra verticale del tuo podice, e forse, non forse, di sicuro non reggerò all’elasticità della tua carne, perché,si vede dalla faccia che hai, è questo che vuoi, volevi essere toccata dalla mia uretralità, da dove, dall’uretralità, nasce la pulsione scopica e la mia profonda sensorialità di visionatore e di poeta. Ti ricordi allora che ti dissi per il commiato? Chissà che versi ti scriverei se sapessi che scarpe hai ai piedi, son certo che hanno due colori e son di quel tipo con cui mi piacerebbe vederti seduta, dopo averti abbassato i leggings e sotto, non è così?, sei senza mutande.





░ Sicilia Dives al Pendino di Napoli ● Notazione di viaggio di un certo Ignazio Apolloni

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        NOTAZIONI DI VIAGGIO: NAPOLI

 
Napoli  Ÿ Complesso Monumentale San Severo al Pendino  

        Avevo sentito parlare di Napoli come di una città multietnica, leggiadra, con una forte passione per i ritornelli; dagli abitanti amanti della nostalgia se soprattutto costretti a rinunziare alla visione del Vesuvio e del suo pennacchio bianco; scarsamente preoccupati di eruzioni e terremoti; votati a un santo privo di stimmate ma dal sangue che da rappreso passa puntualmente al liquido purché la popolazione ne implori protezione e grazia (sinteticamente espressa nella formula Per grazia ricevuta).
Poco altro sapevo della passata gestione del potere da parte di monarchi e principi regali venuti da ogni parte ad assaporarne dedizione e perdizione, ad eccezione di proverbi ed opere pittoriche – soprattutto – raccolte qua e là nei vari musei di arte antica, moderna e contemporanea. Di qui il mio interesse a visitare la città sempreché vi si tenesse una qualche mostra, preferibilmente a tema.
Fu durante il mio ultimo viaggio di ritorno da Lisbona, dove ero stato attratto da una notizia a dir poco edificante, che ebbi modo di conoscere colui che mi avrebbe fatto da guida ove avessi voluto approdare con il mio yacht al porto di quella che fu subito decantata come la perla della Campania: la città di Franceschiello, ovverosia Napoli. Mi lasciai convincere, cedetti, benché fossi diretto al porto di Brindisi ove mi attendeva un critico d’arte intenzionata a creare un museo di arte contemporanea. Aveva saputo della mia collezione. Si dichiarava certa del successo di pubblico ed esperti. Me ne sarebbe venuta gloria, apprezzamenti, servizi televisivi, ressa (quasi) alle inaugurazioni delle molte mostre che già aveva in programma. Ecco allora che mi ritrovo a Napoli dove, ad aspettarmi c’è colui di cui ho detto sopra in compagnia di un altro giovane appassionato di storia della musica ed arte sacra.
La visita a Napoli e dintorni, isole e Cuma, Capri e Ischia, Costa Amalfitana e scalata alla vetta del Vesuvio durò un paio di settimane tra pizze e nacchere, (per le quali non si può dire io vada davvero pazzo: e in verità nemmeno per il Pazzariello). Furono però giornate intense durante le quali mi fecero scendere persino nelle viscere della città: non proprio quelle che stanno sotto il cosidetto Spaccanapoli; di origine greca (stando alla leggenda), bensì quelle create per far posto alla metropolitana. E quale non fu la mia sorpresa nel constatare come le stazioni fossero invase e pervase di opere architettoniche, strutturali, pittoriche, scultoree di ogni genere del contemporaneo (autori nomi altisonanti); nonché scale mobili riccamente illuminate ed aria condizionata a profusione.
Fu uno shock quello che subii. Mai avrei potuto immaginare tanto in una città che governata un tempo dagli spagnoli – quelli che depredarono l’America centrale e meridionale di tutti i tesori architettonici creati dagli Inca e dai Maya innanzitutto, con i relativi arredi e oreficerie – potesse offrire invece chiese e musei in grande quantità oltre a spazi ricavati da luoghi sconsacrati da destinare all’arte.
Uno di questi, dal titolo Sicilia Dives, costretto a visitarlo dai miei accompagnatori con il ruolo di guide parlanti (cosa diversa dal grillo parlante di Pinocchio), è stato il Complesso Monumentale di San Severo al Pendino (qui di seguito chiamato più semplicemente Al Pendino), mi vide coinvolto in una storia degna di essere raccontata. Entrati che fummo, perché in atto c’era una mostra di arte contemporanea organizzata e voluta da certo Gianfranco Labrosciano con il patrociniodell’Amministrazione Comunale locale: interessata al progetto che dovrebbe ipotizzare un possibile e auspicabile legame interculturale tra la Campania e la Sicilia; o più esattamente tra la città reale di Napoli e quella vicereale di Palermo e provincia della Sicilia tutta – in quel monumento rappresentata da venticinque tra pittori e scultori del più profondo Sud del Mar Mediterraneo – mi portò subito a osservare qualcosa di anomalo in un contesto siffatto.
Si trattava di un libro-oggetto laccato di blu di un certo (mi pare) Ignazio Apolloni, raffigurante e con titolo “Il pendolo di Foucault”. Era posto al centro di quello che era stato un tempo l’altare (non si sa se maggiore o minore ma comunque quella era la relativa dimensione e traccia). Nessuno seppe dirmi chi diavolo fosse questo Apolloni. Avrei voluto incontrarlo e dirgliene quattro; sapere quale funzione avrebbe dovuto spiegare quel libro in quel particolare sito, ed oltre tutto capire perché ci stessero, sul medesimo ripiano dell’altare, tutti quei libri: pare pubblicati da varie case editrici come ad esempio la Novecento, Manni, Besa, Coppola e Arianna, tutti con tanto di nome e cognome corrispondenti al suo quale autore.
Domandai in giro per saperne di più ma nulla e nessuno che potesse appagare la mia ansia di sapere. Rimasi sconfortato e sconsolato (anche perché i miei due vati non furono capaci di consolarmi) e restai perciò con la mia curiosità insoddisfatta. Passammo però il resto del nostro tempo continuando a parlare di arte e musica – preferita la dodecafonica – mentre ci dirigiamo allo storico Caffè Gambrinus e subito dopo a via Chiaia per una passeggiata. Non prima tuttavia di un sommario esame delle opere esposte a Palazzo Venezia – testo di certa Carmen De Stasio – luogo di meditazione filosofica sulle sorti dell’umanità e dell’arte: a cura di Benedetto Croce uno dei padri fondatori della Repubblica Italiana. Finimmo la serata col mangiare la pizza dalle Sorelle Bandiera in Vico Cinquesanti, 33/a, che non posso non raccomandare a chi sia goloso di questa specialità napoletana.




23-24 settembre 2013                    Ignazio Apolloni
Agostino Tulumello
Calogero Barba
Franco Spena



Pippo Altomare Luciana Anelli Calogero Barba Nicola Busacca Letterio Consiglio Rosario Genovese Michele Lambo Giovanni Leto Leopoldo Mazzoleni Totò Mineo Gina Nicolosi Enzo Patti Calogero Piro Natale Platania Lorenzo Reina Giuseppina Riggi Salvatore Rizzuti Salvatore Salamone Enzo Salanitro Attilio Scimone Alfonso Siracusa Turi Sottile Franco Spena Giusto Sucato Croce Caravella Delfo Tinnirello Valeria Troja Agostino Tulumello Andrea Vizzini Nicola Zappalà

Walter Benjamin  Farbsignet zum "Pariser Passagen"

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Walter Benjamin

Farbsignet zum Projekt Pariser Passagen und 
zu den "Baudelaire-Studien", 1928-1940
3,4 x 22,3 cm
Akademie der Künste, Walter Benjamin Archiv
© Hamburger Stiftung zur Förderung von Wissenschaft und Kultur


░ Alice e la prospettiva del poeta che nel suo film non era nemmeno un po' Ivan le Terrible

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Alice e la prospettiva del poeta



Gli orinali di Eisenstein 
e io che non ero nemmeno un po’ Ivan le Terrible


Ho ascoltato quattromila canzoni,
ho scritto quattrocentomila versi,
ho letto quarantamila libri.
Eppure nessuna delle mie azioni
brilla più luminosa nella memoria del mondo
e nessuna è più preziosa per me:
come ho potuto non impazzire per
gli orinali sotto il letto quando
me lo cantava Alice ed ero allora
in quegli anni in cui già si cominciava
a mandare a memoria anche solo pochi versi
o questi splendidi incanti così vocalizzati
ed io, lo rammentate, no?, non ero il poeta
degli anni sporchi che pisciano nel lavandino
e degli angoli della deiezione? 
Dio mio non ero ancora nella saggezza di Pope, il poeta:
“Fai bene la tua parte, sta lì tutto l’onore”
altro che fantasmi nudi che lasciano messaggi
dappertutto, sotto il letto o sopra per esempio
negli anni di piombo sull’asse della generazione
figurativa quel che è successo all’alba
è in funzione di tutto quel che è successo
ieri sera quando sono andato al gabinetto
o quando anch’io in un film non certo di Eisenstein
è ovvio non foss’altro per quanto di ottuso
vi abbia rinvenuto Barthes
fui eroe ebbro nel cubicolo
che il mio vino sulla cenere
pisciavo sul sectile marmoreo
l‘arcobaleno
la parete non ha fondo pompeiano[i]
davo questi incanti in versi liquidi
e non ero nemmeno un po’ Ivan le Terrible, 
il terzo senso– quello rimane negli orinali –
cantato così delicato e tenero e forte
passa al meridiano con il mio oggetto a
e dentro l’equinozio che è pur sempre
la linea di Alice che un po’mi riporta
alla spiaggia che c’è a Rimini di questi tempi
dentro la foto di Nadia Campana che sparì dal mio
cubicolo di Torino con la Felicitas di Testori,
che un po’ era , o avrebbe potuto essere, il gaudio
non fosse che per l’anno di nascita della cantante
e della traduttrice di Emily Dickinson, come a dire
che vanno insieme nella stessa rivoluzione solare,
con meno di due settimane di differenza,
com’è indifesa e preatomica Alice a Sanremo nell’81
com’è indifesa e patafisica Nadia a Rimini nel 78...
Alice a Sanremo nell' 81



[i]Ci si fa il verso a qualche verso di: V. S. Gaudio, La 22^ Rivoluzione Solare, Milano 1974.


Rihanna ♦ Il diamante e il meridiano del mio oggetto a

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Rihanna che taglia il vetro lungo il meridiano del mio oggetto a

C’è qualcosa in Rihanna che è come l’amore
e c’è qualcosa che è come quando le ragazze
e i ragazzi vanno a bere la spuma da Sciankèt
dopo la scuola, alla fine di ottobre
o nel boschetto a raccogliere nocciole
più che funghi quante volte ho giocato
per strada e nei sentieri tra gli aranceti
con le ragazze e i ragazzi che ridevano
quando il sole era basso e l’aria frizzante,
e mi fermavo a mangiar diospiri
dentro l’odore dell’autunno
e l’ardore dell’amor giovane
e l’eco nella valle che si libra sopra di me
niente comincia a gelare anche se mi chiedono:
dove sono i compagni che ridevano?
Quanti sono qui con me, e quanti
negli antichi frutteti lungo il sentiero che porta a Marzùca
e nel boschetto che sovrasta la ferrovia?
Quando canta Rihanna e c’è la luna
e la terra scintilla per la brina appena caduta
ed è mezzanotte e non c’è un’anima in giro
è come se balzasse un levriero di fumo
che prende a rincorrere il vento di sud-ovest
che scivola veloce lungo la statale
e agita l’erba e il mio aquilone il mattino dopo
è sopravento benché a tratti sussulti
e la coda ondeggia per un attimo
poi sprofonda nella quiete
e le cornacchie ruotano e ruotano
e sfiorano le colline lontane che dormono
c’è il bosco oltre la ferrovia che è immobile
nell’immobilità dell’autunno di mezzo
non c’è che la polvere del tempo sollevata
dalle auto e dal vento e la ferrovia che lentamente
va scomparendo una volta che sono entrato
nella bottega del mio falegname e ho tremato
quando ho visto il diamante con cui tagliava
il vetro e mia zia che aveva messo una calamita
sotto il barile del vino nella cantina di Sciankèt
eppure ognuno di noi, di noi ragazzi bianchi
che aveva fatto lo scemo con il pesce e anche
con l’uccello e la tigre, pure noi non sappiamo
niente di più di quello che sapeva il diamante
che tagliava il vetro lungo il meridiano
del  mio oggetto Rihanna è così che è come il treno
di mezzanotte che entra in stazione e adesso è solo
un bicchiere su un tavolo o un campo di grano,
una città, una giovane donna con angeli che si chinano su di lei
ditemi che è come un orologio che ho sentito
andare più adagio ditemi che c’è intorno a lei
un’aria di eternità come la fredda, chiara luce
che all’alba c’era nel solleone della mia nascita
ditemi che quel sole e le silenziose stelle sono gli stessi
che nulla è dimenticato, eccetto che il mio tempo
e la memoria del mio esserci, che tutto è cambiato
e tu cammini pensierosa lungo la riva
in mezzo allo sciabordio del vento  tra gli alberi
d’arancio finché ti sei fermata sotto il cielo blu
ed è allora che eri dentro l’autunno
che fa di qualsiasi cosa sotto di sé
il nostro luogo d’incontri nel bosco
dove non c’è nessun ruscello che curvi da se stesso

byv.s.gaudio

[da: Se fosse l’Antologia di Diamond Demon? ]

Rihanna 
by Simon Emmett

• La lettera ►H◄ in quel bel mezzo

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La lettera spostata 
in quel bel mezzo 
in cui scivola lo sguardo

Che da questo semivalore di femina si sprigioni la materialità del significante e “che l’inconscio  è che l’uomo sia abitato dal significante”[1]perché se ne identifichi la lettera – affinché il debito simbolico non venga estinto – serve il traduttore, che andrà diritto là dove giace e dimora  quel che il corpo[di Enrichetta o di Henia?]è fatto per nascondere, “in quel bel mezzo in cui scivola lo sguardo, ovvero in quel luogo chiamato dai seduttori Castel Sant’Angelo, nell’innocente illusione in cui sono tranquilli di tenere da lì la città. To’ tra le gambe”[2] ecco l’oggetto a portata della mano, la lettera H che, come ogni lettera rubata[non ci sarà mai nessuno capace di leggerla, di entrare nel circuito simbolico della lettera, capacità che è solo del destinatario corrispondente], seletta quando è riportata al suo posto, questo posto comporta l’accecamento.
Dentro Enrichetta, l’abbiamo visto, la lettera H, come il peso del più alto dei significanti, è più naturale che il traduttore o il lettore possa sopportare, perché dal posto dov’è sembra che non sia lecito discendere – con facilità – all’Averno.
Il mistero del significante, e le donne sanno che a questo devono le loro attrattive, sta nel posto dov’è, quello che comporta l’accecamento, ecco perché è il più alto dei significanti proprio nell’essere un semivalore in quel bel mezzo in cui scivola lo sguardo.
L’8 x 5 della H di EnricHetta fa 40, né più né meno come l’8 x 5 di Henia, che è la risposta del significante “Tu credi di agire quando io ti agito secondo i legami con cui annodo i tuoi desideri”[3], ovvero “Mangia il tuo Dasein”[4], che spiega lo stato di accecamento imbecille in cui l’uomo è, di fronte alla lettera di pietre che dettano il suo destino,ma per chiamarlo a incontrarsi, quale effetto ci si può aspettare dalle provocazioni di Enrichetta per un uomo pari suo? L’amore o l’odio. Come la carta numero 8, che è l’attrazione e la repulsione, ed è minaccia, promessa, spavento, fremito. Ma – sconvolgente come solo l’Heimlich sa esserlo – nel 40, che è nel posto delle due H, di Henia e di EnricHetta, essendo il “fante di coppe”  è l’ “età dell’adolescenza”, ed è quindi l’arcano del semivalore, quello della fase torbida e tormentosa che segna il principio di una relazione.
Il giocatore, se lo è, interrogherà ancora una volta le sue carte, prima di metterle giù sicuro di aver vinto, e leggendovi il suo gioco, che per Waclaw è quello dell’”Impiccato”, si alzerà dal tavolo in tempo per evitare la vergogna. Che secondo la formula lacaniana della comunicazione intersoggettiva[in cui l’emittente riceve dal ricevente il proprio messaggio in forma invertita][5]permette di leggere la soluzione in piena luce: che vuol dire che “la lettera deviata”, che dall’inizio va in mezzo o viceversa, arriva sempre a destinazione.
La materialità del significante che è la carne del mondo, descritta come segregazione, dimensionalità, continuazione, latenza, sopravanzamento, è in definitiva il toccarsi, il vedersi del corpo che è un inerire a, è essere aperto a sé, destinato a sé[6]: Henia, che non è profonda né ha la misura dell’infinito, pur essendo una “sentimentale infinitista se non dissoluta”, ha la profondità come dimensione del nascosto per eccellenza,ha il tergo, che è il mezzo di cui le cose dispongono per restare nitide, per restare cose; per questo ha l’ottimismo e la presunzione di chi è (nel)la dimensione del simultaneo. Questo tergo così cinico e tenero è la sua cristallizzazione del tempo, il suo potere di ribaltamento, la produttività “tipica”, che è una forma giunta a sé, che è , che coi suoi propri mezzi si pone, identità in profondità, c’è.
La pregnanza, la sua, è ciò che, nel visibile, esige, da me e da Gombrowicz, una messa a fuoco giusta, attorno al sistema di equivalenze attorno al quale Henia è disposta; la sua linea flessuosa, come il tratto del pittore o la pennellata o il bagliore istantaneo di Saudek, ne è l’evocazione perentoria, e a questa giustezza il mio corpo e quello di Fryderyk e di Gombrowicz  obbedisce alla distanza, le “risponde”, si mette alle sue dipendenze, carne che come sguardo non vince la profondità,l’aggira.
Da parte sua, il toccarsi, il vedersi della sentimentale infinitista ,che Henia è, è questa “conoscenza per sentimento” che in un raddoppiamento quasi “riflessivo” si fa immanenza simultanea, simulacro della pregnanza, perché abitante di un corpo e del mondo.                                                                                                                
H



[1]Jacques Lacan, Il seminario su “La lettera rubata”, loc. cit.: pag. 44.
[2]Ibidem: pag. 45.
[3]Ibidem: pag. 50.
[4]Ivi.
[5]Ibidem: pag. 51.
[6]Cfr.Maurice Merleau-Ponty, Carne del mondo, Note di lavoro, in: Idem , Il visibile e l’invisibile, trad. it. Bompiani, Milano 1969: pag. 282. 

· feminae semipondus, 8 - fine ·
( da: v.s.gaudio, feminae semipondus. 
la semidissertazione su "pornografia" 
di witold gombrowicz© 2007)


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